Donald Trump ha deciso di portare in tribunale i social che lo hanno bandito invocando la violazione del Primo emendamento della Costituzione, chiedendo il ripristino degli account e pretendendo un lauto risarcimento danni. Siamo di fronte all’ennesima sparata populista dell’ex inquilino della Casa Bianca in vista delle elezioni di midterm? Non proprio. Trump ha affermato di voler fare causa alle tre big tech dichiarandosi «vittima di censura» e promuovendo una class action nei confronti dei capi delle tre società, Mark Zuckerberg, Jack Dorsey e Sundar Pichai.

La mossa, un nuovo capitolo di un’interminabile saga stellare in corso tra Trump e i giganti della Silicon Valley, giunge dopo che le principali piattaforme social hanno bandito l’ex presidente a seguito dei fatti del 6 gennaio, quando i sostenitori trumpiani hanno assaltato il Campidoglio: cinque persone sono morte nei gravi disordini.

L’ex presidente repubblicano si è messo a capo di una class action contro Twitter, Facebook e Google e i loro rispettivi amministratori delegati, accusandoli di silenziare le voci conservatrici e dichiarandosi vittima di censura sulla sua libertà di espressione. Trump nella inconsueta parte della vittima, dunque, contro lo strapotere di big tech? Eppure Trump, l’outsider, non ha mancato in passato di saper fiutare l’aria che tira e oggi potrebbe aver percepito una marea montante contro lo strapotere delle grandi società high tech della Silicon Valley.

L’azione in Florida

Dal suo golf club di Bedminster in New Jersey, il tycoon ha reso noto di aver intenzione di intraprendere l’azione legale in una corte federale della Florida, diventato il suo stato di residenza dopo che New York gli è diventato ostile. «Chiederemo di mettere fine a questa penalizzazione ombra, a questo silenziare, ricattare, mettere al bando e cancellare», ha affermato ai giornalisti in conferenza.

L’ex capo della Casa Bianca dopo il bando delle tre maggiori piattaforme ha tentato senza successo di aprire un suo personale social. Così si è scontrato con la enorme forza di mercato delle piattaforme dei giganti della Silicon Valley contro l’ingresso di nuovi sfidanti, sebbene dotati di mezzi e notorietà.

Il tycoon, che ha spesso maltrattato e sfidato i media tradizionali, si è ritrovato così senza l’accesso ai social, sua arma preferita per una comunicazione diretta con il suo “popolo”, senza pedanti intermediari e domande scomode. Ma non aveva previsto che i social lo potessero escludere compromettendo le sue ambizioni di mantenere la presa sul Partito repubblicano in vista delle elezioni di midterm nel 2022 e ricandidandosi magari alle presidenziali nel 2024.

Va detto però che la class action parte in salita. In base alla sezione 230 della Communications Decency Act del 1996, le società internet sono esentate (a differenza degli editori tradizionali) dalla responsabilità dei contenuti postati da terzi e sono autorizzate a moderare i loro servizi eliminando i post che, a loro esclusivo e insindacabile parere, contravvengono le regole da esse stesse elaborate, dalla violenza al razzismo. Il tema è caldo in campo repubblicano dove J.D. Vance, il famoso autore di Hillbilly Elegy, la saga americana dei dimenticati, si è candidato al Senato degli Stati Uniti in Ohio.

Secondo il giornalista Mike Allen di Axios la decisione è molto importante perché se Vance, 36 anni, vincesse le primarie per sostituire il senatore Rob Portman, sarebbe il favorito per vincere il seggio e si parlerebbe di una possibilità presidenziale. Non solo. Vance ha affermato ad Axios che la sua «opzione meno radicale» sarebbe quella di proteggere l’espressione politica «in modo da non poter censurare le persone in base al loro punto di vista politico», incluso il bando dalle piattaforme. Ma non solo. Vance ha affermato che i rimedi antitrust «riconoscono efficacemente che, finché queste società sono troppo potenti, non c’è un vero modo per controllarle».

Parole che sembrano già un manifesto politico conservatore dove i democratici stentano a elaborare con altrettanto chiarezza ed efficacia un loro puntuale punto di vista. In sostanza Trump e alcuni conservatori accusano Twitter, Facebook e altri social di posizione dominante e di aver abusato della «protezione» di cui oggi godono e chiedono di ridiscutere la materia.

I repubblicani tuttavia hanno già perso per il momento una prima battaglia in Florida, dove un giudice federale ha bloccato temporaneamente una nuova legge statale che regola come i social media possono moderare i contenuti, affermando che il provvedimento viola il primo emendamento sulla libertà di espressione. La norma prevedeva ammende sino a 250mila dollari per le piattaforme online che sospendono i politici e autorizzava i cittadini della Florida che si ritengono non trattati equamente o danneggiati finanziariamente a fare causa alle società tech. E non siamo che all’inizio di una lunga battaglia.

A giugno alcuni parlamentari democratici e repubblicani del Congresso hanno presentato ben cinque progetti di legge che hanno nel mirino i monopoli dei colossi del digitale Google, Apple, Facebook e Amazon. «Al momento i monopoli non regolamentati della tecnologia hanno troppo potere sull’economia», ha scritto in quell’occasione il democratico David Cicilline, presidente della commissione anti-monopoli alla Camera dei rappresentanti. Secondo il parlamentare, «sono in una posizione unica per scegliere vincenti e perdenti, distruggere le piccole aziende, aumentare i prezzi per i consumatori e far perdere il posto di lavoro alle persone».

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