Nei giorni scorsi è stata avanzata una proposta di intervento sull’attuale tassazione che molti avevano definito patrimoniale: rimuovere l’Imu sulle seconde case e le imposte di bollo sui conti correnti e, contestualmente, introdurre solo per coloro che posseggono più di 500mila euro di ricchezza netta un’imposta progressiva a partire dallo 0,2 per cento. Chi possiede 600mila euro di ricchezza netta verserebbe 2mila euro, non pagando più l’Imu in caso di proprietà di più immobili e risparmiando i bolli sui conti correnti.

La commissione Bilancio ha bocciato la richiesta, che aveva come primi firmatari Nicola Fratoianni e Matteo Orfini, giudicandola inammissibile per mancanza di copertura. Ha ritenuto che l’intervento richiesto avrebbe diminuito le entrate nelle casse dello stato anziché aumentarle, ma la proposta è stata poi riammessa ai voti e quindi sarà discussa. Tuttavia, al di là dell’iter dell’emendamento,  un fronte di persone si era già dichiarato contrario. Ma per quali ragioni?

La patrimoniale è una tassa sulla ricchezza, beni mobili e immobili. La ricchezza è data dalla casa in proprietà nella quale siamo residenti, dai soldi che abbiamo sui conti correnti, ma anche, per alcuni, dalla seconda casa in città, al mare o in montagna o anche dai garage. Consiste anche nelle obbligazioni, nei fondi di investimento, nei certificati di deposito, nelle azioni, nelle quote di società.  La somma di tutto è il valore della ricchezza lorda. La ricchezza netta invece tiene conto dei debiti contratti, ossia mutui, prestiti e crediti al consumo.

Facciamo un esempio. La famiglia Verdi vive in una città del centro Italia in un trilocale di proprietà. Il valore della casa ammonta a 150mila euro, ma i Verdi per comprarla hanno acceso un mutuo e devono ancora pagare 126mila euro.  Devono inoltre ancora pagare le spese di ristrutturazione che ammontano a 30mila euro. Hanno due conti correnti con 10mila euro complessivi e hanno acquistato una cucina e un soggiorno a rate per i quali devono ancora pagare 6mila euro. Quindi, la ricchezza della famiglia Verdi è di –2mila euro (+150mila –126mila –30mila + 10mila –6mila).

Una famiglia su venti 

Quando il valore dei debiti, come per la famiglia Verdi, supera quello dei beni posseduti, la ricchezza è negativa. Una stima sui dati Banca d’Italia mostra che nel 2016 una parte consistente di famiglie - più di una su venti - aveva una ricchezza pari a zero o negativa. Sempre nel 2016, la metà delle famiglie dichiarava una ricchezza netta che non superava i 126mila euro. E anche considerando il 75 per cento delle famiglie la ricchezza netta è inferiore ai 253mila euro.

Questi dati messi in relazione con la proposta avanzata da Fratoianni e Orfini portano a definirla una iniziativa timida. Avrebbe pesato solo sulla parte più ricca della popolazione e non in maniera gravosa. La soglia era infatti abbastanza alta da garantire che il pagamento dell’imposta non avrebbe interferito con i consumi delle famiglie coinvolte. E, a differenza di quanto paventato da Beppe Grillo, non avrebbe sovraccaricato di tasse la classe media. 

La prima bocciatura della commissione Bilancio - motivata dalla mancanza di copertura - fa pensare che le entrate aggiuntive dell’imposta sulle ricchezze nette sopra i 500mila euro sarebbero state inferiori a quanto oggi viene incassato dall’Imu sulle seconde case e dai bolli sui conti correnti.

Dunque, una proposta decisamente timida, ma che aveva già unito il fronte degli oppositorii: Zingaretti, Di Maio, Faraone, Salvini, Meloni, Tajani, Brunetta… Pensando ai dati sulla ricchezza delle famiglie italiane possiamo chiederci il perché di questa disapprovazione pressoché unanime.

La ricchezza genera ricchezza

La resistenza all’introduzione di una patrimoniale, così come a una tassa di successione, può essere messa in relazione con due retoriche molto diffuse. La prima è che l’imposizione fiscale sia una punizione e vada evitata. La seconda è che la ricchezza sia onorevole: i ricchi si meritano ciò che hanno, producono ricchezza per tutti ed è ingiusto pensare di tassarli.

Questi argomenti però si scontrano con due elementi. Il primo è che le tasse non sono un castigo ma sono un modo per contribuire al vivere comune.

La nostra società e i servizi funzionano se tutti contribuiamo in maniera almeno proporzionale alle nostre possibilità. Se non pagassimo più le tasse non avremmo più servizi e quando ne abbiamo pagate meno i servizi hanno iniziato a funzionare peggio. Il secondo elemento che mette in discussione il merito dei ricchi è che la ricchezza non è frutto del merito.

Il risparmio è una parte minima

Solo in minima parte la ricchezza è data dal risparmio. La componente maggiore della ricchezza è infatti data dalle donazioni e dalle eredità che si tramandano da generazioni. È la ricchezza stessa che genera altra ricchezza. È emblematica a questo proposito la proprietà delle seconde case, possedute in Italia da meno di due nuclei su dieci. Una famiglia che eredita un alloggio di proprietà non ha pagato nulla sulla ricchezza ricevuta quando è inferiore al milione di euro.

L’alloggio può poi essere messo in affitto e la rendita che ne deriva, con la cedolare secca, ha una tassazione del 20 per cento. La tassazione sui redditi derivanti dagli affitti è meno della metà di quella sui redditi da lavoro.

In questo modo la famiglia si arricchisce, aumenta il suo patrimonio che poi lascerà a sua volta in eredità ai propri figli. Ma che merito ne ha? Cosa c’è di meritato nella ricchezza generata da altra ricchezza? Molto poco.

Speriamo allora in una risposta positiva della Commissione bilancio? Certo, ma potremmo spingerci oltre. Auspichiamo sia presentata e sostenuta una nuova proposta, più incisiva, che introduca una tassazione sulla ricchezza netta oltre i 500mila euro in aggiunta all’attuale Imu e ai bolli sui conti correnti. In sostanza garantendo che aumentino le entrate dello stato tassando i ricchi, che sono in pochi, ma hanno tanti difensori.

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