L’Ufficio parlamentare di bilancio ha pubblicato una nota in cui aggiorna le stime di crescita del Prodotto interno lordo (Pil) del nostro paese per il 2025 e il 2026. Come avviene ormai da mesi, le revisioni mostrano un quadro sempre più negativo: per il 2024, la crescita dovrebbe essere dello 0,7 per cento (nelle previsioni fatte a fine 2023 per l’anno successivo, doveva essere all’1,2 per cento), mentre nel 2025 e nel 2026 sarà rispettivamente dello 0,8 e dello 0,9 per cento. Insomma, siamo tornati stabilmente nel territorio della crescita dello “zero virgola”, una prospettiva decisamente deludente per un paese il cui Pil è ancora fermo ai livelli del 2008.

I motivi delle previsioni al ribasso

Come sottolinea Upb, le ragioni della revisione al ribasso sono da ricercare nelle notizie di cui si sta discutendo in questi giorni: in particolare, la Germania che sembra essere sprofondata in un inesorabile declino economico e le tensioni commerciali scatenate dalla voce grossa di Donald Trump, che sta scompigliando tutte le carte sul tavolo degli scambi internazionali.

Nelle facoltà di economia di tutto il Mondo, si studiano spesso modelli teorici che rappresentano il comportamento di una piccola economia aperta, ossia un paese di dimensioni relativamente ridotte. Di solito, non può fare affidamento su una produzione nazionale di materie prime, ma, grazie agli scambi commerciali, riesce a prosperare importando ciò che è necessario a produrre ed esportando prodotti finiti e servizi. Un esempio di un’economia di questo tipo è quella dei Paesi Bassi.

L’Italia, pur essendo un grande paese esportatore (e importatore di materie prime), non dovrebbe rientrare più di tanto in questa definizione, dato che è sì un’economia aperta agli scambi, ma non è piccola: nonostante il declino economico degli ultimi decenni, rimaniamo l’ottavo paese al Mondo per Pil. Proprio il declino economico, però, ci sta rendendo sempre più dipendenti dal clima sui mercati internazionali e questo è un problema.

La nostra economia, infatti, è cresciuta pochissimo dal 2008 in poi, e lo ha fatto solo ed esclusivamente grazie all’export. Come mostra il grafico qui sotto, dal 2000 al 2008 la crescita dei consumi finali interni (ossia quello che spendono i cittadini all’interno del territorio nazionale) e quella delle esportazioni sono andate più o meno di pari passo, mentre dalla Grande Recessione in poi i consumi si sono completamente fermati. Nel 2023, valevano l’8 per cento in meno rispetto al 2008, mentre le esportazioni erano cresciute del 20 per cento.

I problemi dell’elevato export

Il problema è che basare la propria crescita solo sulle esportazioni ha due grossi svantaggi. Il primo è che, per quanto grande (l’Italia è il sesto paese esportatore al Mondo), l’export pesa solo per una frazione dell’economia nazionale. Nel 2023, valeva 776 miliardi di dollari, contro 1.750 miliardi dei consumi finali. Anche se si punta tutto sulle esportazioni, dunque, si andrebbe a trainare solo una parte dell’economia.

C’è poi il secondo fattore, quello della volatilità: scommettere tutto sul fatto che saranno gli altri paesi a comprare i nostri prodotti ci espone al rischio che, a un certo punto, questi paesi decidano di non comprare più. È il caso della Germania, che con la crisi, soprattutto del settore automotive, ha ridotto drasticamente la domanda di componentistica e di altri prodotti delle industrie italiane, e degli Stati Uniti, che hanno già imposto molti dazi e potrebbero presto colpire anche l’Unione europea.

Servirebbe più domanda interna

Insomma, se è giusto investire sempre di più per rendere le imprese esportatrici, è anche importante mettere in campo politiche che stimolino la domanda interna, ossia la quantità di beni e servizi che vengono acquistati sul territorio nazionale. Il problema è che gli italiani non hanno soldi da spendere: proprio a causa della stagnazione economica degli ultimi due decenni, il potere d’acquisto è colato a picco.

Ma gli stipendi degli italiani sono troppo bassi

La nota Upb si chiude proprio sugli stipendi: nonostante la parziale crescita nel 2024 dei salari reali (aggiustati cioè per l’inflazione), il potere d’acquisto degli italiani è calato di più del 3 per cento rispetto al 2021. Considerando che tra il 2014 e il 2022 gli stipendi erano già calati del 4 per cento, le prospettive si fanno ancora meno rosee di quanto non fossimo già abituati da tempo.

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