Tra gli appuntamenti ormai abituali per il weekend c’è sempre l’ultimatum ad Atlantia. Anche questo fine settimane, come in parecchi dei gli ultimi, si attende una svolta nella trattativa infinita tra governo e famiglia Benetton sul destino di Autostrade.

A oltre due anni dal crollo del ponte Morandi, poco è cambiato. Questa volta però forse ci siamo davvero, anche se l’esito sembra molto diverso da quello che le vittime della tragedia del 14 agosto 2018: il governo sembra aver trovato il modo di escludere i Benetton dalla gestione delle autostrade italiane, ma lo farà al prezzo e alle condizioni decise dai Benetton stessi perché ha scelto di privarsi dell’unica arma che, per quanto delicata da un punto di vista giuridico  oltre che politico, dava un qualche potere contrattuale: la revoca della concessione.

A quale prezzo

Entro domenica Atlantia, che è la holding finanziaria controllata dalla famiglia Benetton con il 30 per cento, attende una proposta formale e vincolate dalla Cassa depositi e prestiti (Cdp), la società a controllo pubblico guidata da Fabrizio Palermo che dovrebber comprare l’88 per cento del capitale di Autostrade per l’Italia, cioè la quota in mano ai Benetton (c’è un altro 12 per cento di Efd, Allianz e Silk Road, un fondo cinese). Prima incognita: a quale prezzo?

Se fossero davvero i 10-12 miliardi di cui si parla, per i Benetton sarebbe un ottimo affare. Cdp non entrerà da sola, ma con alcuni fondi che l’aiuteranno a sostenere lo sforzo finanziario, si parla degli australiani di Macquarie e dell’americano Blackstone. Piccolo problema: quei fondi li ha portati nella trattativa Atlantia, cioè i Benetton, che così non soltanto vendono solo al prezzo che reputano giusto ma si sono scelti pure il compratore.

Se verrà confermata lo schema anticipato dal Sole 24 Ore, Cdp sarà socia al 51 per cento di una nuova società da creare solo per detenere la partecipazione in Autostrade. Il che significa dover sempre e comunque trattare con i grandi investitori stranieri nel capitale, che entrano soltanto perché hanno una ragionevole aspettativa di fare un buon investimento.

Aspettativa dovuta a una semplice considerazione: lo Stato è azionista di controllo della Cdp, tramite il ministero del Tesoro, ma è anche il proprietario della rete stradale data in concessione ad Autostrade e decide durata della concessione e pedaggi.

Lo Stato uno e bino

Se diventa azionista del concessionario, tramite Cdp, lo Stato avrà tutto l’interesse ad autorizzare grandi investimenti da remunerare con pedaggi sempre più alti. Guadagnano gli azionisti, pagano gli automibilisti. Se poi si scoprirà che i Benetton non hanno fatto tutti gli investimenti promessi in questi anni, nessun problema: li faranno le Autostrade a controllo pubblico, a spese ancora una volta dei contribuenti. A Blackstone e agli altri fondi non resta altro da fare che cogliere i benefici di questo conflitto di interessi tra lo Stato azionista e lo Stato regolatore.

Altro dettaglio rilevante: l’accordo tra Cdp e Atlantia passa per un’intesa sulla manleva, cioè su chi deve essere considerato responsabile di eventuali danni aggiuntivi che dovessero emergere nell’inchiesta penale sul ponte di Genova e dunque pagare eventuali risarcimenti.

Lo scenario più probabile è che, dopo l’intesa tra Benetton e Cdp, tutte le parti coinvolte perdano ogni interesse a far emergere peccati del passato. La guerra di perizie a Genova sulle responsabilità del crollo del ponte (errori insabbiati dalla gestione pubblica fino al 1999 o scarsa manutenzione di quella privata?) perderà di rilevanza, almeno dal punto di vista finanziario.

Aveva senso aspettare due anni per ottenere questo discutibile successo? Forse no, l’alternativa era la revoca della concessione. Ma il governo Conte avrebbe dovuto avere il coraggio di mantenere le minacce del giorno dopo il crollo del ponte e avrebbe soprattutto dovuto fare bene i conti. La versione del contratto di concessione in vigore dal 2008 attribuisce moltissimo potere al concessionario: anche in caso di colpa grave, lo Stato deve pagare una penale in caso di revoca: il valore attuale dei flussi di cassa futuri stabiliti dai piani finanziari in vigore, al netto di una penale del 10 per cento. Questa la formula, ma quanto vale in euro?

Il calcolo dell’indennizzo

Il valore attuale dei flussi futuri è stimato in 20 miliardi, che però non tiene conto delle richieste di risarcimento danni legate al disastro di Genova (che in sede di trattativa il governo avrebbe potuto enfatizzare) e dei 2 miliardi della penale. Visto che Autostrade ha 9 miliardi di debiti, il governo avrebbe pagato non più di 11-12 miliardi, facendosi carico dell’indebitamento. Visto che dopo la revoca la concessione, con scadenza 2038, sarebbe poi stata riassegnata a un altro concessionario, il governo avrebbe potuto allungarne ulteriormente la durata di 13 anni fino al limite massimo di 30 (in caso di una vera gara la Commissione Ue non avrebbe fiatato).

Il concessionario subentrante poteva pagare una cifra equivalente al valore dell’allungamento subito, una stima realistica è di 5-7 miliardi. Morale: a fronte di 20 miliardi da pagare ai Benetton per rompere ogni legame, nel migliore dei casi il governo ne avrebbe dovuti versare davvero  2 o 3 miliardi. Certo, poi avrebbe dovuto gestire una transizione difficile, ma molto più rapida di quella nello schema che coinvolge la Cdp.

Per evitare di pagare direttamente Autostrade, cioè Atlantia, cioè i Benetton, il governo Conte ha preferito mettere in piedi questa complessa triangolazione con la Cassa depositi e prestiti annunciata il 14 luglio e non ancora avviata. Uno schema che, alla fine, costerà di più alle casse pubbliche e agli automobilisti e non migliorerà la qualità del servizio, visto che lo Stato proprietario delle strade dovrà preoccuparsi più di remunerare l’investimento di Cdp, Macquarie e Blackstone piuttosto che di abbassare le tariffe al casello e ridurre gli ingorghi.

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