È impressionante rileggere oggi i 77mila file sull’Afghanistan che nel 2010 Julian Assange aveva pubblicato, perché dentro quei rapporti scritti dagli stessi soldati americani che combattevano sul campo, c’era – con 11 anni di anticipo – il racconto di una guerra fallita: l’offensiva talebana veniva raccontata in dettaglio anno dopo anno, mentre gli stessi soldati parlavano delle truppe governative afghane come di un “esercito di carta”, mal pagato e armato. Il conflitto innescato dalla Nato, poi, era costellato di centinaia uccisioni indiscriminate, compiute da speciali unità come l’americana Task Force 373, di cui non si conosceva neanche l’esistenza.

Al governo e nelle più alte cariche dello stato afghano c’erano corrotti che drenavano i fondi degli internazionali, una “cleptocrazia” che nei rapporti americani veniva accusata persino di narcotraffico: negli anni dell’occupazione militare della Nato la produzione di oppio afghano è esplosa. Quando Donald Trump a Doha firma, nel 2020, l’accordo con cui consegna l’Afghanistan ai Talebani, l’operazione dell’Isaf era già fallita da anni. Ma è l’intera “Guerra al terrore”, scatenata dagli americani dopo l’attacco alle Torri gemelle, nel mirino di Assange.

In quel 2010 la piattaforma di WikiLeaks rende disponibile alle più importanti testate giornalistiche una enorme mole di materiale militare classificato, che l’ex analista dell’esercito di stanza a Bagdad Bradley Manning aveva trafugato: il video “Collateral Murder”, che mostrava il massacro di civili inermi compiuti da due elicotteri Apache a Baghdad nel luglio del 2007, tra cui due cronisti della Reuters; 400mila rapporti secretati dei militari americani sul campo che raccontavano l’incubo in cui era piombato l’Iraq, le torture, le prigioni segrete, lo scoppio della guerra civile tra sunniti e sciiti, un inferno costato all’Iraq 200mila morti di civili e la distruzione di una nazione; lo scandalo della prigione di Guantanamo, di cui abbiamo avuto piena consapevolezza solo dopo che Assange ha pubblicato la lista intera dei quasi 800 sospetti terroristi che vi erano finiti dentro: la maggioranza degli internati erano dei poveracci, vittime di delazioni e della tortura usata egli interrogatori.

Duecentosessantamila rapporti secretati che provenivano dalle ambasciate americane dove si leggeva come gli americani intervenivano sulle politiche interne dei paesi del mondo per piegarli alle loro esigenze e come è successo in Italia. Una miniera di informazioni e notizie che facevano capire come la “Guerra al terrore” si era rivoltata contro di noi, consegnando ai servizi segreti in nome della sicurezza nazionale un potere enorme, extra legem, e fuori dal controllo democratico. Lo stesso potere che ha giurato vendetta contro Assange.

Come vi racconteremo questa sera a PresaDiretta, sono 11 anni che il giornalista australiano non è più un uomo libero. Prima la magistratura svedese che lo accusa di stupro e che ne vuole l’estradizione, un’inchiesta che per 7 anni è rimasta alle fasi preliminari, e oggi, grazie al lavoro della giornalista Stefania Maurizi, sappiamo che furono gli inglesi a dire agli svedesi, testuali parole, «non vi azzardate a chiudere il caso!». Poi quasi 7 anni dentro l’ambasciata dell’Ecuador a Londra e questa sera vi porteremo le prove di come sia stato illegalmente spiato per anni dalla società che doveva occuparsi della sicurezza dell’ambasciata: tutti i suoi incontri venivano filmati, persino quelli con i suoi avvocati e tutto finiva negli Stati Uniti.

E quando Nils Melzer, il Relatore speciale contro la tortura dell’Onu, decide nel 2019 di aprire una inchiesta sul caso Assange, arrivano le pressioni Usa sull’Ecuador perché la protezione venga sospesa e Scotland Yard lo arresta dentro l’ambasciata e lo trascina in un carcere di massima sicurezza dove è detenuto da quasi due anni e mezzo, in attesa che si decida se consegnarlo agli Stati Uniti che lo vogliono processare con una legge contro lo spionaggio del 1917, mai utilizzata prima contro un giornalista e con una possibile pena di 175 anni di carcere.

«Se mi consegneranno agli Stati Uniti farò in modo di non arrivarci vivo», ha detto Assange a Nils Melzer. E l’Europa? Assente. Mentre tutte le associazioni internazionali che si occupano di libertà e diritti hanno chiesto alla Gran Bretagna la scarcerazione di Assange e agli Stati Uniti di rinunciare a processarlo, nessun leader europeo ha mai ufficialmente detto una sola parola, talmente grande è il potere di interdizione esercitato dagli Stati Uniti sul caso Assange. Ma con quale faccia diamo lezione di democrazia nel mondo intero, se accettiamo che da noi un giornalista ed editore rimanga per anni in carcere in detenzione preventiva e venga processato solo perché ha fatto il suo lavoro?

 

© Riproduzione riservata