Dopo tre decenni di impunità, il tribunale di Roma ha riconosciuto l’associazione mafiosa per gli esponenti di vertice del clan Casamonica. La famiglia è considerata il più potente clan autoctono del Lazio, ma ha goduto di una lunga sottovalutazione.

Dopo otto ore di camera di consiglio, i giudici della decima sezione, presidente Antonella Capri, hanno condannato i boss per mafia nel maxi processo contro la famiglia che vedeva 44 imputati alla sbarra. Alla lettura del verdetto erano presenti i vertici del clan, collegati in videoconferenza, mentre altri imputati, come Asia Sara Casamonica, Vito Nicola Zaccaro erano presenti nell’aula bunker del carcere di Rebibbia.

Il verdetto

In 14 erano accusati di associazione mafiosa, l’imputazione principale non ha retto per Luciano Casamonica che è stato condannato comunque a dodici anni di reclusione, per Antonietta e Asia Sara Casamonica, condannate rispettivamente a sette e due anni di carcere. Tutti gli altri sono stati considerati partecipi «dell’associazione mafiosa denominata clan Casamonica operante nella zona Appia-Tuscolana della città di Roma (con base operativa in vicolo di Porta Furba)». Spaccio di droga, estorsioni, usura, questi gli affari illeciti della cosca mafiosa della capitale, che ha trasformato il quadrante est della capitale.

Al vertice è stato riconosciuto Giuseppe Casamonica, detto Bitalo, considerato il capo: impartiva ordini agli affiliati, estorceva personalmente i commercianti della zona e continuava a comandare anche dal carcere dove è stato rinchiuso dal 2009 al 2018. È stato condannato a venti anni e sei mesi di carcere.

Insieme a lui sono stati condannati anche i fratelli, Salvatore Casamonica a venticinque anni e nove mesi di carcere, Massimiliano Casamonica a diciannove anni e quattro mesi di reclusione. Anche le donne del clan, finite sul banco degli imputati, sono state colpite dal verdetto dei giudici: come Liliana Casamonica, detta Stefania, a diciassette anni e nove mesi.

La madrina del clan, nel 1997, andò a parlare davanti al santo padre. «Ora non sono emozionata ma domani chissà... e poi vedere il Papa da vicino», raccontava prima dell’evento. Quel giorno era il grande “Giubileo-gitano”, papa Wojtyła proclamava beato Ceferino Gimenez Malla, detto “El Pelè”, ucciso dai repubblicani nella guerra civile di Spagna del 1936. Quel giorno Guerino, il padre di Stefania, rassicurava i cronisti: «Una volta sono stato in carcere ma i miei figli filano tutti diritti. Ho dato loro una educazione severa. Fino a ieri, i parroci ci cacciavano». Educazione criminale: i suoi figli sono stati condannati per mafia, a 24 anni dal quel giorno storico.

Liliana Casamonica è la reggente del clan, si occupava della gestione della cassa, dei colloqui con i fratelli detenuti e delle comunicazioni agli affiliati. Sotto processo è finito solo l’arcipelago egemone nel territorio della Tuscolana, il clan si compone di circa mille sodali, in questo processo erano 44 gli imputati.

Tra gli imputati c’era anche Cristiano Vitale, un maresciallo della Guardia di finanza, spostato in un reparto non operativo, che è stato condannato a due anni sei mesi per favoreggiamento. Condannato anche Vito Nicola Zaccaro, amico di Guerrino Casamonica, che si occupava di spaccio, a quattro anni e un mese di reclusione.

Omertà romana

Il processo è stato istruito dalla procura di Roma, pubblici ministeri Giovanni Musarò e Stefano Luciani. Nel processo c’erano venticinque vittime, tra cui il noto conduttore radiofonico Marco Baldini. Vittime di usura ed estorsione, nessuna di queste si è mai sognata di denunciare. L’unica vittima che lo ha fatto non c’era perché è morta nell’aprile dello scorso anno. Si chiamava Ernesto Sanità. Aveva la voce rauca, il corpo sfiancato dalla battaglia che conduceva da oltre un decennio. «I Casamonica, quando sono entrati nella mia vita non ho abbassato la testa perché io non dovevo pagare le colpe di mio figlio», diceva Sanità. Il clan gli aveva tolto la casa per un presunto debito del figlio, Giovanni, morto anni fa in una misteriosa rissa. Sanità aveva denunciato tutto alla polizia e si era rivolto all’Ater, la società pubblica che gestisce le case popolari, per cacciare i Casamonica dall’abitazione che occupavano abusivamente. È andato perfino a riprenderselo da solo, ma i membri del clan, dopo averlo minacciato di morte, hanno occupato di nuovo l’immobile trasformandolo nella loro tana. Non voleva fare l’eroe, ma solo avere ciò che gli spettava per diritto. È rientrato nella sua casa dopo un decennio e successivamente alla retata delle forze dell’ordine contro i suoi estorsori.

Era il 2018, due anni prima di morire. Nella capitale di uno dei paesi del G8, un signore settantenne ha dormito sotto i ponti, abbandonato dallo stato, perché un clan disponeva delle vite delle persone, delle case, del loro presente e del loro futuro. E chi denunciava veniva ignorato. «Voglio morì, non ce la faccio più», diceva Sanità. Ieri sarebbe stato in aula ad ascoltare il verdetto del tribunale. Non voleva sfidare nessuno. Sanità sapeva di contrastare un clan di mafia, mentre una città intera indifferente si girava dall’altra parte, storcendo il naso quando sentiva la parola mafia. Ora un tribunale di primo grado ha riconosciuto l’associazione mafiosa, una sentenza contro la quale le difese hanno già annunciato che presenteranno ricorso.

 

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