Normalizzare l’aborto non significa negare la necessità di un welfare a sostegno della natalità, né che la contraccezione sia un presidio fondamentale di salute pubblica, ma vuol dire riarticolare l’intero discorso in termini di giustizia riproduttiva mettendo in discussione gli approcci paternalistici di uno stato che, mentre dovrebbe assistere, sorveglia o abbandona
Una «misera, piccola conquista». Così Effe, settimanale di punta del movimento femminista, descriveva la legge 194 nel 1981 schierandosi «per il doppio no» nella campagna referendaria che chiamava il popolo italiano a esprimersi sulla possibilità di cambiare questa legge.
No al quesito del Partito radicale, che chiedeva una maggiore liberalizzazione con la possibilità di interrompere la gravidanza anche al di fuori del servizio sanitario nazionale, no al quesito del Movimento per la vita, che chiedeva una restrizione quasi totale delle condizioni a cui sarebbe stato consentito abortire.
Due no per conservare intatta una legge pur molto lontana da quel diritto all’autodeterminazione che il movimento aveva messo a fuoco con la pratica dell’autocoscienza e portato nelle piazze nel corso del decennio precedente, ma una legge da difendere. «Perché nel frattempo la società italiana si è involuta, è cambiata in senso moderato ed è chiaro che tira ormai un altro vento», scriveva nell’editoriale dedicato al referendum la direttrice di Effe, Daniela Colombo.
Il male minore
La cultura che sosteneva il doppio no si fondava sulla visione dell’aborto come male minore e su quella di uno stato che attraverso l’assistenza gratuita si prende cura e cerca di evitare quella che veniva trasversalmente descritta come un’esperienza drammatica, traumatica e violenta. Ma un’assistenza obbligatoria, non facoltativa.
Sebbene la Corte costituzionale abbia stabilito che «non sussiste equivalenza tra il diritto alla vita e alla salute di chi è già persona, quale la madre, e la tutela dell'embrione che deve ancora diventare persona» (sentenza numero 27 del 1975), il modello legislativo italiano sull'aborto vincola il diritto di scelta della gestante a un processo che prevede l'intervento dello stato attraverso il personale dei servizi socio-sanitari e di organizzazioni del terzo settore, al quale è affidato il chiaro compito di prevenire l’aborto.
Ed è proprio attraverso questo compito che lo stato assistenziale può ricadere nel lato oscuro, producendo anche abbandono, burocrazia, impedimento, talora vessazione (la clausola di obiezione di coscienza per il personale sanitario avrebbe dovuto essere transitoria e invece è rimasta, ampiamente abusata. Se in Italia l’aborto è libero e gratuito, ma non sempre accessibile ed altamente medicalizzato, lo dobbiamo alla legge 194.
Uguale a sé stessa
Da quando è stata varata, nel 1978, generazioni di comitati si sono avvicendati nello sforzo inesausto di applicare la legge 194, che tutela il «diritto alla procreazione cosciente e responsabile» ma anche «la vita umana fin dal suo inizio», i consultori e la contraccezione ma anche le associazioni di volontariato, il diritto del personale sanitario di rifiutarsi di curare ma anche il diritto delle donne di essere curate, etc.
Tirata da una parte e dall’altra come una coperta troppo stretta, la legge 194 ha attraversato i decenni. In un solo punto è stata cambiata, nel passaggio da sanzione penale ad amministrativa (fino a 10mila euro) per le donne che si procurano un aborto fuori dai luoghi e dai modi previsti per legge. Il vento propizio per il suo aggiornamento è sembrato e sembra non arrivare mai, accumulando anzi nubi sempre più scure all’orizzonte.
Aborto sicuro
Pillole e internet, nel frattempo, hanno rivoluzionato il concetto di aborto sicuro: non più solo chirurgico ma anche farmacologico, non più solo in ospedale ma anche a casa e autogestito con l'assistenza a distanza di personale adeguatamente formato, non necessariamente laureato in medicina.
Oggi la letteratura scientifica parla di “early medical abortion”, aborto medico precoce, fino a 12 settimane di gestazione. I nuovi standard di sicurezza sono descritti dall’Organizzazione mondiale della sanità con la pubblicazione di Linee guida nel 2022, recepite in Italia dalle Raccomandazioni dell’Istituto superiore di sanità nel 2023 e dalle Raccomandazioni delle società scientifiche di ginecologia e ostetricia nel 2024.
I protocolli ci sono, ma il loro assorbimento nelle pratiche mediche è lento e incontra ostilità e inerzia a molti livelli, a partire da quello dirigenziale delle politiche sanitarie. L’ostacolo però è anche al livello micropolitico di come pensiamo l’aborto, anche nei movimenti che lo vogliono legale, sicuro e gratuito.
Un cambio di prospettiva
Credo che due siano i punti chiave su cui la discussione debba essere portata fino in fondo: se continuare a considerare l’aborto come extrema ratio, male minore da evitare con ogni mezzo, e quale debba essere il ruolo dello stato e della classe medica.
Un cambio di prospettiva è sollecitato, appunto, dalle evoluzioni tecnologiche. Quanto più è precoce la gravidanza, infatti, tanto più è sconsigliato l’intervento chirurgico e tanto meglio è il farmacologico, somigliando a una mestruazione più dolorosa e abbondante del solito e gestibile fuori da ambiente ospedaliero con alcuni accorgimenti necessari.
In un mondo ideale le pillole abortive sono prescritte dal medico che dà le corrette informazioni e si ritirano in farmacia insieme al test per verificare poi se l’aborto è riuscito, mentre all’ospedale e alla chirurgia sono affidate le interruzioni in periodo avanzato di gestazione e quelle sui cui il farmacologico è controindicato o se la donna lo preferisce.
Il mondo ideale
Questo mondo ideale peraltro esiste già, in Canada per esempio, dove non risulta che le donne abortiscano come si va a farsi una birra con le amiche. In Italia, invece, l’aborto farmacologico viene ancora largamente proposto sul modello del chirurgico e cioè ospedalizzato, con l'obbligo di più accessi.
Questo nuovo scenario implica la normalizzazione dell’aborto come qualcosa che può capitare nella vita sessuale e riproduttiva di una persona dotata di organi riproduttivi, un evento normale come il menarca doloroso, la gravidanza, i disturbi della menopausa, un’infezione a trasmissione sessuale. Una gravidanza che arriva inattesa apre scenari che richiedono cure e attenzioni, ma non in ottica dissuasiva come fa la legge 194.
Normalizzare l’aborto
Normalizzare l’aborto non significa negare la necessità di un welfare a sostegno della natalità, né che la contraccezione sia un presidio fondamentale di salute pubblica, ma vuol dire riarticolare l’intero discorso in termini di giustizia riproduttiva mettendo in discussione gli approcci paternalistici di uno stato che, mentre dovrebbe assistere, sorveglia o abbandona.
In questa direzione si stanno spingendo i movimenti transfemministi di nuova generazione, nel cui alveo si è di fatto aperto questo dibattito. Lo si è visto a Pisa, dove il collettivo Obiezione respinta ha organizzato di recente “Facciamo da noi. Un festival sull’aborto”, tappa di un percorso che si è sviluppato in diverse città. In questa direzione va il convegno “Ripensare la legge 194. Aborto, consultori, dati”, che si terrà il 23 maggio in Senato per iniziativa di un gruppo di associazioni. Il dibattito è aperto.
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