I Talebani e l’oppio, una storia d’amore e odio che va avanti da venti anni. Nel 2000, una delle ultime decisioni del governo del Mullah Omar fu quella di proibire la coltivazione dell’oppio in Afghanistan. Ora il portavoce talebano Zabihullah Mujahid annuncia che il prossimo esecutivo si impegnerà per evitare che il paese resti «un centro per la coltivazione del papavero da oppio e per il business della droga».

Un cerchio che sembra chiudersi. Ma la sfida del governo talebano è impegnativa: negli anni di occupazione militare occidentale, l’Afghanistan è diventato il primo paese al mondo per coltivazione di oppio e l’epicentro dei traffici globali delle droghe che ne derivano.

L’oppio regge buona parte dell’economia afghana: i contadini nelle zone rurali spesso non hanno altre possibilità di sostentamento, e chi controlla il territorio – e quindi gli “studenti coranici”, ma anche i rappresentanti del governo legittimo, o i “signori della guerra” – lo utilizza per accrescere potere e conto in banca.

Un cortocircuito che si è creato sotto gli occhi di militari della Nato, che hanno assistito alla trasformazione dell’Afghanistan in uno stato che fa dell’oppio – ma anche della cannabis, di cui è il secondo produttore a livello mondiale – una delle sue principali fonti di ricchezza.

Il giro d’affari

Basta dare un’occhiata ai rapporti di Unodc, l’ufficio delle Nazioni unite contro droghe e crimine, per rendersi conto dell’aumento esponenziale della coltivazione del papavero da oppio in Afghanistan.

Nell’Afghanistan Opium Survey del 2001 sono solo 7.606 gli ettari di terreno coltivati a oppio. L’anno precedente, quando ancora il mullah Omar non ne aveva proibito la produzione, erano 82.172. Nel 2019, stando all’ultima indagine Unodc, gli ettari coltivati erano quasi il doppio: 163.339. Un dato dimezzato rispetto al 2017, quando le coltivazioni raggiungevano i 328.302 ettari. L’ufficio Onu stima che il giro d’affari intorno all’oppio, dalla coltivazione al consumo, nel 2019 sia stato tra 1,2 e 2,1 miliardi di dollari, somme «più alte del valore delle esportazioni lecite dello stesso anno», e che corrisponde al 7-12 per cento del prodotto interno lordo afghano.

La somma intascata da «attori non statuali» si attesta tra i 61 e i 131 milioni di dollari, solo nell’ultima registrazione, per quanto riguarda solo la “tassa” sul raccolto. Non esiste un dato ufficiale preciso sui profitti della coltivazione e del traffico di oppio, o dei suoi derivati: si stima però che i Talebani, nel 2020, abbiano intascato circa 460 milioni di dollari. Una cifra enorme, con cui finanziare la battaglia per tornare al potere.

Non solo Talebani

Ma i signori della droga non sono solo i Talebani. «Basta sovrapporre le cartine con le coltivazioni di oppio con quelle che indicano il controllo dei territori: ci sono zone talebane, ma anche quelle sotto il controllo del governo», spiega una fonte autorevole dell’antidroga che si occupa dei traffici nell’Asia centrale.

L’oppio è storicamente una fonte di arricchimento per chiunque in Afghanistan. «Bisogna però chiedersi perché le forze di occupazione, oltre a iniziative di scarso successo come l’eradicazione di alcune piantagioni, non abbiano agito con più forza: prima del loro arrivo le tonnellate di oppio prodotto erano nemmeno 185 tonnellate, oggi sono oltre 6mila, ma si sono toccate punte di 9mila».

Il fallimento occidentale nella guerra alla droga è certificato anche dal Sigar, l’Ispettorato Usa per la ricostruzione dell’Afghanistan. «Le attività antidroga non sono mai state una priorità per i governi di Stati Uniti e Afghanistan», è scritto nel report del 2018.

Nell’ultimo rapporto al Congresso Usa del 30 gennaio 2021, il Sigar evidenzia che i progressi nella lotta alla droga sono stati «lenti, inconsistenti e insufficienti». Un insuccesso ancora più grande, se si considera il budget stanziato dal 2002 per la guerra all’oppio sfiora i 10 miliardi di dollari.

I traffici e le mafie

L’Europa è uno dei principali punti di arrivo delle droghe afghane. Arrivano attraverso le rotte del nord e quella del sud-ovest: la prima attraversa l’Uzbekistan fino alla Russia; l’altra passa per l’Iran, la Turchia, e poi i Balcani fino all’Europa del Nord.

«A gestire i traffici sono le organizzazioni criminali turche, iraniane, e la mafia russa», spiega la nostra fonte. Le mafie italiane, invece, sono più interessate alla cocaina: «Nelle grandi inchieste antimafia, non ci sono grandi quantitativi di eroina», riflette. Piuttosto è la criminalità albanese, attiva nel nostro paese, che ne approfitta, gestendo i porti di Rotterdam in Olanda e Anversa in Belgio, dove arrivano grossi carichi.

«L’ultimo collega dell’antidroga ha lasciato Kabul nel 2017: era difficile ottenere informazioni utili al contrasto del narcotraffico che interessasse l’Italia», racconta la fonte. Ora non resta che vedere se il nuovo governo talebano farà davvero la guerra all’oppio. «Sarà facile capirlo», conclude l’investigatore, «la maggior parte dell’oppio afghano passa per l’Iran: se caleranno i sequestri lì, allora sarà diminuita la produzione. È l’unica cartina di tornasole possibile».

 

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