Un proverbio afghano recita: «Non c’è un capo se non c’è una tovaglia», vale a dire un tavolo, una fattiva gestione del potere e di benefici. Si parla di potere pratico, non di astratti sistemi più o meno democratici. In un paese non solo famoso per la sua impermeabilità alle invasioni straniere ma anche per la struttura tribale, irriducibile al concetto di democrazia liberale.

E la presa del potere dei Talebani nel paese culla di quello che gli storici dell’Ottocento chiamavano “Heartland”, il cuore della terra, ha tutta l’aria di quei segnacoli piantati dalla storia. Come il Vietnam, certo. O come la ritirata francese (e tedesca) in Russia. Come il massacro di Teutoburgo (9 d.C), che rese chiaro al mondo che la Germania non si sarebbe latinizzata.

«L’idea di stato non è mai sorta in Afghanistan» racconta Massimo Papa, ordinario di Diritto musulmano e dei paesi islamici a Tor Vergata, che ha lavorato “boots on the ground” in Afghanistan per l’Onu, ed è un conoscitore vero del paese e della sua cultura. «Piuttosto c’è il convergere eventuale tra tribù ed etnie diverse. Non c’è un capo senza una tovaglia, appunto. Quindi non viene riconosciuto alcun potere a chi non è in grado di procurare benessere alla comunità: alleanze, benefici, o semplicemente far deviare i soldi della cooperazione internazionale in un dato punto. Altrimenti non ti devo nessun tipo di obbedienza».

È quello in cui l’impegno americano è stato carente. Del resto gli afghani ringraziano Allah dopo il pasto, non prima.

Esattamente. Se uno parte da questo concetto antropologico capisce. Un altro proverbio sostiene: puoi partire, andare ovunque ma non potrai mai dimenticare che appartieni allo “khel”, che è il segmento minimo tribale. È un senso di appartenenza quasi concentrica, ed è un legame che nessuno si sogna di tradire. È più forte di qualsiasi fedeltà alle “istituzioni”. La risposta del perché l’esercito afghano si sia liquefatto è anche qui, probabilmente.

Una sorta di sistema di “protezione” rispetto a qualsivoglia “importazione”, anche solo culturale, della democrazia, dunque.

Un altro proverbio afghano: “La verità è nel pozzo”. Tu ti puoi avvicinare fino a un certo punto, oltre no. E io simulo e dissimulo fino all’inverosimile. Perché devo preservare il mio essere, la mia storia.

E di fronte a questo cosa ha fatto l’occidente?

È andato avanti vent’anni a ricostruire – o costruire – in maniera superficiale le cosiddette istituzioni, dando la sensazione di impiegare i nostri soldi su cose o inapplicabili, o completamente inessenziali.

Ad esempio?

Ad esempio vengono fuori alcuni politici e dicono: “Hanno rimesso il burqa”. Ma noi non siamo andati lì per liberare le donne dal burqa. Sono slogan.

E nella sostanza?

Abbiamo fatto sottoscrivere convenzioni internazionali, quella dell’Onu sui diritti del fanciullo, una Carta costituzionale che proclama tutti i diritti umani. Ma, attenzione, «salvo la compatibilità con le regole dell’islam». Nessuna contrattazione con le regole sacre dell’islam, quindi. O pensiamo alla riforma del diritto. Tribunali, giusto processo, eccetera. Ma la Corte suprema era tenuta per diversi anni da un Mullah, che proveniva dalla cultura del diritto islamico, delle Madrasse.

C’erano delle aporie del sistema…

Una vera e propria dissociazione. Un giudice afghano mi diceva: «Devo stare a sentire formatori che arrivano dagli Usa, o dal Canada per qualche giorno, pagati 30-40mila dollari, che non sanno niente del paese, mentre io guadagno 100 dollari al mese». È chiaro che i dirigenti afghani non si sentivano parte di un apparato statale. È mancata la visione politica per la creazione di una cultura dello stato.

Per quanto riguarda la formazione?

Stessa cosa. Quando si voleva riformare l’università avevo proposto di rifarci ad altri paesi musulmani, come il Marocco, o l’Egitto, utilizzando il loro modello. Dicevo: «Proponiamo questi casi come modelli di riforma degli studi del diritto». Risultato: tutto bloccato dagli americani, che avevano inviato in zona professori afghano-americani, gente che aveva studiato negli Usa e che gli afghani, in loco, chiamavano, col massimo disprezzo, “sag shoi”, “lava cani”.

“Lava cani” non suona bene.

Tentarono di inserire un modello di diritto americano, che non c’entrava niente con la tradizione afghana. Risultato: si bloccò tutto. Aprirono un’università americana dalla quale avrebbero dovuto uscire le élite afghane. Esattamente come i sovietici, che avevano aperto il Politecnico dal quale uscì Massoud. Allo stesso tempo altri paesi, tra cui l’Iran, aprivano le loro università in Afghanistan.

Questi “nuovi” Talebani hanno assicurato che avranno un rispetto diverso per le donne e i diritti.

Intanto sono un po’ più istruiti, per dirla in modo semplice. Almeno i vertici hanno avuto tempo di irrobustirsi dal punto di vista teologico. Radio Sharia non sta emanando delle Fatwa come faceva il Mullah Omar. Il fatto che usino strumentalmente l’idea di garantire diritti alle donne fa pensare. Si, va bene, istruzione alle donne, ma fino a che è età? E poi, attenzione, che tipo di insegnamento?

Spieghi meglio: qual è il vero pericolo?

A me pare di intravedere l’intervento di alcune frange, finanziate da paesi molto influenti, come la Turchia, che presentano legami molto forti con i Fratelli Musulmani. Quindi si andrebbe verso l’occupazione delle istituzioni, e la re-islamizzazione delle istituzioni. Questo garantirebbe ai Talebani una maggiore legittimazione a livello internazionale. Il problema, in questo caso, non sarebbe più la lapidazione in piazza, ma una profonda penetrazione in senso islamista delle istituzioni, dell’istruzione, eccetera.

Una “corsa in avanti” che sarebbe una inedita radicalizzazione?

Il rischio c’è.

Un nuovo Iran?

Penso a un modello non proprio iraniano. L’Iran ha puntato sulla “clericizzazione”, basti pensare alla figura dell’ayatollah.

Ma in Afghanistan ci potrebbe essere una forma di presenza di religione nelle istituzioni, attraverso le figure di religiosi.

E il terrorismo?

Che l’Afghanistan possa diventare un covo di al Qaeda è un rischio, certo.

Ma poi ci potrebbe essere un modello internazionale nuovo, inedito. Che ci sia una convergenza di interessi economici per dare vita a una forma inedita, pericolosa, e più duratura dell’effimero emirato dei Talebani di vent’anni fa.

Una “cosa afghana” cui si innestano interessi cinesi, russi, turchi?

I cinesi vogliono ricostruire le infrastrutture, e far passare la Via della seta. I cuore dell’Asia è sempre quello. Ci sono interessi economici e geopolitici molto forti. Non si tratta di un Vietnam in senso politico, ma è un Vietnam in senso ideologico, temo.

Con gli Usa costretti a dire di sì, sottobanco, a una grossa perdita di influenza.

L’opinione pubblica americana è stata tenuta lontana, per anni e anni, da presidenti, che si sono concentrati sugli interessi nazionali. Gli Usa non vogliono fare più lo sceriffo del mondo.

Nulla a che vedere con l’avvicendamento fra Trump e Biden.

Nulla a che vedere, certo, sono movimenti storici più ampi. È cambiato il comune sentire americano.

L’idea di un “nation building” è mancata in entrambi gli schieramenti, democratici e repubblicani. Non esiste più.

 

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