In Italia, entro i primi novanta giorni di gestazione, per motivi di salute (fisica o psichica), economici, sociali o familiari, una donna può richiedere l'interruzione volontaria di gravidanza (IVG). Lo può fare dal 1978, da quando è entrata in vigore la Legge 194.

Non può farlo per un’altra legge, quella del moralismo di chi si erge a giudice stabilendo che chi vuole abortire deve provare vergogna, perché sta commettendo un abominio e per questo verrà dannata (basti vedere le campagne Pro vita degli ultimi anni). Una donna che sceglie di abortire non è una puttana e non è un’assassina. Non ha bisogno che si preghi per la sua anima.

Sono passati più di quarant’anni dalla Legge 194, ma lo stigma sociale legato all’aborto va ancora combattuto, e va fatto partendo dal linguaggio, provando a sradicare la visione colpevolizzante della donna.

Alice Merlo, attivista genovese di 27 anni, lo ha fatto mettendo in gioco il suo corpo e la sua voce, raccontando il suo aborto farmacologico con una narrazione rivoluzionaria, e utilizzando parole come “serenità”, “gratitudine”, “felicità”. In un paese che ti condanna a sentirti in colpa per una scelta che è un tuo diritto, ci vuole un gran coraggio.

Questo messaggio è riportato anche nei cartelloni con la sua immagine che stanno fiorendo in tante città italiane («Dove non siamo ancora arrivati, arriveremo» assicura), e che spiegano con chiarezza come la RU486 sia una scoperta scientifica straordinaria per la salute di noi donne, dal momento che ci consente di abortire evitando il ricovero ospedaliero e l’operazione chirurgica.

«Aborto farmacologico, una conquista da difendere», è lo slogan della campagna nazionale promossa dall’Uaar (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti) in favore dell’aborto farmacologico, costruita proprio insieme ad Alice Merlo.

Merlo si occupa di comunicazione politica per l’associazione Linea Condivisa e da quasi tre anni fa parte dello staff del consigliere regionale ligure Gianni Pastorino. È stato proprio verso la fine della campagna elettorale, a settembre 2020, che ha scoperto di essere incinta.

Qual è stato il primo pensiero quando hai scoperto la gravidanza?

Mamma chiama la ginecologa, mi serve un appuntamento per domani, urlato dal bagno.

Sensi di colpa, dubbi?

Nemmeno per una frazione di secondo, mai.

E poi, hai deciso di raccontarlo.

Con un post, su Facebook. Ho scritto che avevo abortito e che stavo bene, che ero felice. Che è qualcosa che va oltre il mero racconto di un’esperienza. Significa tentare di ribaltare il punto di vista, sconvolgere una società intrisa fin dalle fondamenta di pregiudizi, della visione che guarda all’aborto come uno stigma. Una colpa, appunto.

Qual è stata la risposta?

A quel post è seguita una valanga di affetto: ho perso il conto delle persone che mi hanno scritto per raccontarmi la loro storia, per condividere e confrontarsi. L’odio è una parte marginale, dolorosa, ma marginale.

Però c’è anche quell’aspetto.

È l’altra faccia della medaglia dei social: da un lato cassa di risonanza e luogo di incontro, dall’altro sovresposizione. E qualcosa nell’algoritmo non funziona bene se io – per aver risposto di avere una visione piuttosto ottusa a chi mi accusava di metterci la faccia, perché pagata dall’Uaar – vengo segnalata per bullismo, e Facebook accetta la segnalazione cancellando il mio post. Chi, invece, mi apostrofa come puttana e assassina resta liberissimo di farlo. Anche da parte dei gestori delle piattaforme, si dovrebbe avere un’attenzione diversa perché il cambio di passo si concretizzi.

E poi c’è chi, invece, ti ricorda che devi sentirti in colpa.

È la cosa che più mi rattrista. Chi pur dicendo di essere per la libertà di scelta, ti giudica. Chi sostiene che ognuno è libero di fare quel che vuole con il proprio corpo, ma che l’aborto resta comunque un fallimento. Siamo stati educati per anni a una narrazione unicamente drammatica dell’aborto e non si riesce immediatamente a empatizzare con chi compie questa scelta. Quello che cerco di fare io è modificare questa narrazione.

E torniamo alla tua storia personale.

Ho deciso di metterci la faccia perché le donne devono sapere che quella dell’aborto farmacologico è una strada sicura, che si può percorrere senza dover aspettare troppo tempo e soprattutto che, dopo aver abortito, ci si può sentire felici e sollevate. Le nostre nonne hanno lottato per l’ottenimento della 194, a noi il compito di iniziare una narrazione non colpevolizzante e serena dell’aborto. Ogni generazione è chiamata a fare meglio della precedente: questo è il nostro compito.

E a chi ti dice che ci sono svariati modi per evitare una gravidanza?

Rispondo che fare un errore è concesso, e non per questo si deve sottostare al giudizio e al senso di colpa. Gli anticoncezionali, poi, non sono mai sicuri al 100 per cento. Nel caso di quelli ormonali non puoi nemmeno correre ai ripari prendendo la pillola del giorno dopo, perché te ne accorgi solo quando la gravidanza è conclamata. È per questo che alle donne deve essere garantito un accesso all’Interruzione Volontaria di Gravidanza, che sia semplice e rassicurante. Va da sé che, perché una rivoluzione si attui, bisogna porre l’accento anche su altro.

Ad esempio?

L’educazione alla sessualità nelle scuole, a partire dalle scuole elementari. La cultura si costruisce e le scuole non possono essere estromesse da questo processo.

A ventisette anni hai una consapevolezza di te stessa rara, che a volte neanche donne di quaranta hanno.

Sono stata cresciuta dalla mia famiglia in un ambiente laico e mi è stata concessa un’educazione sessuale libera e consapevole. Mi reputo una ragazza fortunata e le mie battaglie sono mosse proprio dalla presa di coscienza di questo privilegio.

I genitori sono prima di tutto persone, non è facile educare figli alla consapevolezza quando non si ha una forte centratura.

I miei genitori mi hanno avuta dopo un precedente matrimonio, per entrambi. Posso anche dire che mia madre ha educato mio padre, scardinando alcuni modelli patriarcali che aveva involontariamente introiettato. È una strada, quella della rivoluzione culturale, che va percorsa insieme, sapendo che nessuno è al riparo dagli errori.

Cosa conta davvero?

L’empatia. Sospendere il giudizio e provare a empatizzare con l’altro senza mettere davanti sempre e comunque se stessi. Se io ti racconto che per me l’aborto non è stata un’esperienza personalmente drammatica, non vedo perché tu debba convincermi che dovrei sentirmi in altro modo.

Se ti dico femminismo, tu cosa mi rispondi?

Che il mio femminismo è di tipo intersezionale: non lotto unicamente in difesa delle donne, ma metto insieme più battaglie perché col tempo ho capito che se sto bene io non significa che anche gli altri stiano altrettanto bene. Sono una femminista che difende le diverse identità sociali, le minoranze, e che rivendica il diritto a non essere discriminati. Sono una femminista che chiede equità, parità e accesso, ma non solo per le donne cis, etero, bianche e abili.

A parte l’empatia, cosa ci manca per farcela?

Uno stato che smetta di considerare le donne come parte non attiva del lavoro e politiche concrete contro la violenza. Lo stato è assente e fa della parità di genere un mero vezzo.

Corpi politici

I nostri corpi sono politici, siamo noi a poterne e doverne scrivere la biografia.

Le campagne antiabortiste sono pericolose: fanno leva sulla vergogna e sulla paura. L’aborto farmacologico è una conquista, e come tutte le conquiste va difesa.

Nel 1963 Annie Ernaux, studentessa di 23 anni, scopre di essere incinta.

Non ha dubbi: vuole abortire, ma l’unico modo per farlo è clandestinamente, perché l'aborto in Francia è ancora illegale.

Nel romanzo L’evento, la scrittrice racconta la sua scelta: «La prospettiva di abortire non mi spaventava. Mi sembrava una cosa, se non facile, perlomeno fattibile, che non richiedeva nessun particolare coraggio. Una prova come altre». Ma per renderla possibile, deve innanzitutto esistere come possibilità. «La parola stessa non aveva posto nel linguaggio», scrive Ernaux.

Come sempre, dare un nome alle cose ti permette di comprenderle, di farle esistere.

In una Francia in cui l’aborto viene legalizzato nel 1975, Ernaux rivendica la sua scelta. In un’altra geografia fa lo stesso Marina Abramović, che racconta di aver abortito tre volte, perché per la sua carriera diventare madre sarebbe stato un disastro. «Ognuno ha un’energia limitata nel proprio corpo – dice Abramović – e con un bambino so che avrei dovuto dividerla. Sono felice di essere libera. Secondo me c’è una ragione per la quale le donne non hanno successo in campo artistico come gli uomini. Il mondo è pieno di donne talentuose. Perché, allora, gli uomini ricoprono sempre le posizioni più importanti? È semplice. Amore, famiglia, bambini: una donna non vuole sacrificare tutto questo».

Molte di noi sono cresciute sentendosi dire che ci saremmo completate solo quando avremmo creato “la nostra famiglia”. Le parole “matrimonio”, “casa”, “figli” “cibo”, prendevano un significato diverso per noi, che vedevamo sfumarne altre come “lavoro” e “carriera” (appannaggio dei maschi).

Solo una cosa non ci veniva mai detta: che abbiamo il diritto a non farla, una famiglia.

E se quella famiglia non la vogliamo, non dobbiamo giustificarci con medici e ginecologi obiettori di coscienza che, nella sanità pubblica, spesso impediscono alle donne di abortire serenamente.

© Riproduzione riservata