Un gol è per sempre, il contratto di un allenatore no. Non è solo una questione di firme o di penali. Nel calcio, più che altrove, i contratti sono una promessa fragile. Resistono finché conviene. Da Conte ad Allegri, da Sarri a Italiano: la Serie A si ristruttura. Un tempo era un valzer, oggi è una faccenda di governance.

Nel calcio professionistico il contratto non è solo una firma: è un rapporto di lavoro speciale. L’avvocato Mattia Grassani spiega che è «un segmento del comparto del lavoro certamente sui generis, perché nasce, si sviluppa e si estingue a velocità vertiginose, vivendo di stimoli e motivazioni. Appare evidente, per ragioni di sovraesposizione, umoralità e sentimenti coinvolti, che le dinamiche siano completamente diverse rispetto a qualsivoglia rapporto di lavoro ordinario. Manager, dirigenti, dipendenti comuni non sono sottoposti allo stesso tritacarne. Forse per questo si è più portati a ridiscutere i rapporti con maggiore frequenza, anche considerando che i tesserati non sono soltanto lavoratori subordinati della società sportiva, ma ne rappresentano – o meglio il diritto ad usufruire delle loro prestazioni rappresenta – il principale asset aziendale».

Tutto fast

Un contratto è come un cuore, «fatto per essere infranto». La massima è attribuita a Ray Kroc, figlio dell’Illinois come Ronald Reagan, uno che aveva fatto la Prima guerra mondiale, aveva conosciuto Walt Disney, dopo la guerra si era messo a vendere tavoli pieghevoli e frullatori a cinque lame prima di mettere in piedi quello che sarebbe diventato il simbolo del capitalismo par excellence: McDonald's, la catena di fast food.

C’è qualcosa di simile nel calcio moderno: è tutto fast. Fast food, fast management, fast turnover. Negli ultimi tre anni in A sono stati cambiati 56 allenatori tra esoneri, richiami, cambi a fine stagione. E l’anno che verrà segue il trend. Tutte le big hanno almeno meditato per un istante variazioni sul tema. Chi per necessità (il Milan o la Roma) e chi per tigna (la Juventus). This is football.

La giostra si vede bene anche in Serie B: oltre trenta allenatori esonerati a stagione iniziata negli ultimi tre campionati. Più si scende di categoria, più i contratti diventano blindature: meno soldi, nessuno vuol pagare clausole o penali, e chi ha un contratto se lo tiene stretto, specie se è buono.

«Certamente il calcio di alto livello è un settore dove il rapporto datore di lavoro-lavoratore è molto più sbilanciato dalla parte del prestatore. Tuttavia – dice ancora Grassani –, si tratta comunque di contratti di lavoro a termine, la cui interruzione anticipata determina, se non avviene in maniera consensuale, il diritto della parte receduta di ricevere un risarcimento del danno. Spesso si giunge ad accordi (consistenti, ad esempio, in rinuncia a retribuzioni o premi da parte dei tesserati), evitando contenziosi che, per la verità, risultano infrequenti».

Il caso Conte

A Napoli oggi si aspetta la fumata dal conclave Conte-De Laurentiis. Il tecnico ha un contratto che scade nel 2027, sembrava tentato dall’idea di andarsene nonostante lo scudetto (o forse proprio per quello) come successe a Luciano Spalletti. Uomini forti, destini forti. Eh già, ma i contratti, quelli invece sono fragilissimi.

Restare in panchina può essere un atto di fede. E Conte sembra non averla persa. Al Milan, Conceiçao aveva sperato di poter allungare il suo destino. E tenere fede al contratto (scadenza 2026 che però ha una clausola rescissoria). Invece no. I rossoneri li allenerà Max Allegri. Chi alza la voce rischia di fare un patatrac. Vedi Fábregas a Como. Che sì, sembrava aver rinnovato appena una quindicina di giorni fa (tra giubilo e proclami: «Ho un progetto col Como»), poi si è saputo che con la Roma ci aveva già parlato, aveva detto sì, e adesso sul lago hanno fatto le barricate.

Gasperini ha ancora un anno di contratto con l’Atalanta, ma può dire basta, me ne vado. Anche Italiano aveva ancora un anno con il Bologna, ma il rinnovo (di due anni) è servito a rafforzare il progetto. Il caso più esplosivo è però quello di Palladino. La Fiorentina aveva annunciato il rinnovo all’inizio di maggio. «Orgoglioso, non me l’aspettavo», aveva detto lui. «Era il momento giusto», aveva aggiunto Pradé. Pochi giorni dopo il gran rifiuto. Dimissioni. Stupore. Caos.

Il Codice di giustizia

Non siamo ai confini della realtà. Ma certo il mondo normale è altrove. Nel calcio ci sono sempre deadline che incombono (di solito è l’estate, prima che esploda il mercato), date da final countdown (il 30 giugno, quando i contratti scadono, solitamente è profetica), riunioni risolutive. Il calcio, come la letteratura, ha bisogno di dare un ordine alle cose e crearsi un intreccio. E ovviamente di colpi di scena, peripezie, ribaltamenti. Troppo facile rispettare i contratti, sai che noia. Infatti è show business, mica il Piano Marshall.

Esiste un profilo disciplinare, spiega Grassani, «molto importante, mancante in qualsivoglia altro rapporto lavorativo: l'art. 32, comma 11, del Codice di Giustizia Sportiva della Figc». Il Codice stabilisce che chi recede da un contratto sportivo senza giusta causa incorre in sanzioni: ammenda, squalifica, divieto di tesseramento. Per questo, molte società prima di ingaggiare un tecnico chiedono che sia liberato formalmente dal club precedente, per evitare rogne regolamentari.

La carta e la sostanza

Questo significa, aggiunge l’avvocato, «che non basta pagare una penale o risarcire il danno perché, comunque, gli organi di giustizia sportiva possono infliggere al responsabile della rottura unilaterale sanzioni quali l'ammenda o la squalifica, nei confronti del tesserato, oppure, nel caso in cui la parte recedente sia la società, ammenda o divieto di tesseramento di nuovi calciatori. Per tale ragione, capita sovente che le società interessate ad avvalersi delle prestazioni del tecnico o del dirigente ne condizionino l'ingaggio alla preventiva risoluzione consensuale del rapporto con il precedente club, per evitare di assumere un tecnico a rischio squalifica».

I contratti servono a prendere tempo, non a garantirlo in panchina. La carta ha ancora un peso, ma la sostanza si gioca altrove: negli equilibri sottili tra volontà, interessi e convenienze reciproche. I club sono come aziende. Vero solo in parte. L’emisfero dei dirigenti è stabile, qualche volta immutabile. Un Ceo può restare decenni. L’altro emisfero, quello del campo, dei giocatori, degli allenatori, muta con la velocità del vento. Incide tutto: gli umori della gente, le ambizioni, il salto di qualità. O il semplice desiderio di vedere volti nuovi.

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