A due settimane di distanza, la scarcerazione del torturatore libico Osama Almasri è diventata per il governo un caso giudiziario oltre che politico. Alla denuncia dell’avvocato Luigi Li Gotti per peculato e favoreggiamento personale contro la premier Giorgia Meloni, i ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, e il sottosegretario con delega ai servizi Alfredo Mantovano, si somma quella di Lam Magok Biel Ruei, originario del Sud Sudan e vittima di Almasri durante la sua prigionia a Tripoli.

Anche Magok ha deciso di denunciare il governo per favoreggiamento. Nei giorni scorsi aveva denunciato in una conferenza al Senato le violenze subite dal generale libico e i suoi uomini e ha raccontato di essere stato ascoltato dalla procura della Corte penale internazionale (Cpi) che aveva aperto un fascicolo contro Almasri. «Il governo italiano mi ha reso vittima una seconda volta, vanificando la possibilità di ottenere giustizia anche per tutte le persone, come me, sopravvissute alle sue violenze», dice Magok. «Una possibilità che era diventata concreta grazie al mandato d’arresto della Corte penale internazionale e che l’Italia mi ha sottratto», aggiunge.

Il ruolo di Nordio e Piantedosi

Le accuse sono rivolte sia al ministro della Giustizia, Nordio, per non aver sanato il vizio di forma con il quale la corte d’appello di Roma ha liberato il capo della polizia giudiziaria di Tripoli, sia al ministro dell’Interno, Piantedosi, per averlo poi espulso dal territorio nazionale. Il 21 gennaio, a due giorni di distanza dall’arresto della Digos avvenuto a Torino su mandato della Cpi, Almasri è rientrato in Libia a bordo di un Falcon 900 operato tramite la Compagnia aeronautica italiana, azienda usata di fatto dai servizi segreti italiani. Un volo di stato in piena regola, contestato dalle opposizioni. «Sono convinto che l’Italia si possa ancora definire uno stato di diritto, dove la legge è uguale per tutti, senza subire sospensioni o eccezioni, e dove le persone definite pericolose a causa dei crimini commessi vengano consegnate alla giustizia e non ricondotte comodamente nel luogo dove hanno commesso e continueranno a commettere atrocità», ha detto Magok.

Secondo il legale di Magok, Francesco Romeo, la Cpi aveva informato le autorità italiane dell’operatività del mandato di arresto e le aveva anche «coinvolte in una precedente attività di consultazione preventiva e coordinamento volta proprio a garantire l’adeguata ricezione della richiesta della Corte e la sua attuazione».

Ma questo non è avvenuto. Il tribunale dell’Aia aveva affermato di non essere stato avvertito del rilascio di Almasri e di aver chiesto conto alle autorità italiane. Per Romeo il ministro Nordio ha violato la legge di ratifica dello statuto della Corte penale internazionale, firmato tra l’altro a Roma nel 1998, che impone alle autorità destinatarie di una richiesta di arresto internazionale di eseguirlo.

L’espulsione

In aula in Senato il ministro dell’Interno, Piantedosi, aveva affermato che Almasri era stato espulso in quanto «soggetto pericoloso». Una giustificazione che secondo Magok non regge: «Non è pericoloso in Italia, ma in Libia. È in Libia che ha commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità per i quali è ricercato dalla Corte penale internazionale e che, grazie alla condotta del governo italiano, continuerà a perpetrare a danno di donne, uomini e bambini».

Per legge l’espulsione per motivi di sicurezza nazionale ha il fine di prevenire che gli stessi reati possano essere eseguiti sul suolo italiano. Ma a Torino, dove Almasri si trovava al momento dell’arresto, il generale libico non poteva mettere in atto le violenze di cui è accusato in Libia. Che pericoli c’erano quindi per il paese? Il caso è molto intricato. «Mi aspetto che il governo riconosca l’errore di aver aiutato a fuggire uno dei peggiori criminali ricercati a livello internazionale. Mi aspetto che i giudici riconoscano questo errore e che il governo ammetta la sua responsabilità», dice Magok a Domani.

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