La sentenza più recente è del 6 aprile scorso. Il numero uno della Eternit, Stephan Ernest Schmidheiny, che oggi ha 74 anni, è stato condannato in primo grado dalla corte d’assise di Napoli a tre anni e sei mesi per omicidio colposo, per aver causato la morte di Antonio Balestrieri, operaio dello stabilimento Eternit di Bagnoli deceduto il 21 ottobre 2009 per mesotelioma pleurico. Continua così la saga dei processi all’amianto, avviati oltre 30 anni fa per dare giustizia a centinaia di vittime degli stabilimenti Eternit sparsi per l’Italia. L’ultima fabbrica ha chiuso nel 1986, ma quasi quarant’anni dopo continuano i processi nei confronti di Schmidheiny, magnate svizzero, rappresentante della quarta generazione dei signori dell’amianto. Quella di Napoli è solo l’ultima di una lunga lista di sentenze in attesa di conferma o, peggio, finite nel nulla. Il fatto che oggi si discuta ancora in processi di primo grado della condotta colposa o dolosa di Schmidheiny conferma le contraddizioni che inceppano il sistema giudiziario italiano, incapace di dare sentenze su fatti avvenuti 30 o 40 anni fa. La giustizia si muove sempre con lentezza, ma in questo caso sembra davvero paralizzata. 

Uno, nessuno e centomila processi

Stephan Schmidheiny nel 1992 (Foto Wikipedia)

Il primo processo contro Schmidheiny è iniziato a Torino nel 2009. Il proprietario e amministratore delegato della Eternit era accusato di disastro ambientale doloso e omissione di misure di sicurezza sui luoghi di lavoro in relazione alla morte o alla malattia di quasi tremila persone, sparse tra i quattro impianti gestiti dalla sua azienda in Italia: Casale Monferrato (Alessandria), Cavagnolo (Torino), Rubiera (Reggio Emilia) e Bagnoli (Napoli). Nel 2012 è arrivata la prima condanna: 16 anni, aumentati a 18 l’anno successivo con il processo d'appello. 

Poi, nel 2014, quando i crimini di Schmidheiny sono arrivati al vaglio della Cassazione, sul processo è calata la scure della prescrizione che ha azzerato tutte le sentenze. Secondo la Cassazione il disastro ambientale di cui era accusato Schmidheiny è cessato nel 1986 con la chiusura della fabbrica, e il reato era quindi già prescritto ancora prima del rinvio a giudizio. La prescrizione ha cancellato anche i risarcimenti disposti dalla corte d’Appello, 30 mila euro a favore di ciascuna delle 938 parti offese, mai pagati. 

«È stata una delusione enorme, una sofferenza rinnovata», dice oggi Assunta Prato, che nel 1996 a Casale Monferrato ha perso il marito Paolo Ferraris ucciso dal mesotelioma, il tumore ai polmoni causato dall’inalazione delle fibre di amianto. Negli anni del primo processo si è battuta, insieme ad altri cittadini, perché il comune di Casale rifiutasse i 18 milioni di euro offerti da Schmidheiny in cambio del ritiro come parte civile. «Quei soldi per lui erano un’elemosina, c’era da vergognarsi ad accettarli. E siamo riusciti a fare in modo che non accadesse», dice ricordando la tensione di quei momenti e le manifestazioni pubbliche da lei organizzate.

La prescrizione ovviamente non ha fermato la sete di giustizia dei familiari delle vittime, che insistono nonostante l'inappellabile fine dei giochi stabilita a norma di legge. Nel 2015 Schmidheiny è stato nuovamente rinviato a giudizio dalla procura di Torino per l'omicidio volontario aggravato di 258 persone.

È l’inizio del cosiddetto processo Eternit bis, subito bloccato perché gli avvocati del magnate sostengono che il procedimento sia viziato all’origine, visto che Schmidheiny era già stato processato per lo stesso reato. La questione è arrivata fino alla Corte costituzionale che nel 2016 – ormai trent’anni dopo la chiusura dell’ultima fabbrica – ha disposto la divisione del processo in quattro filoni, uno per stabilimento, nei tribunali di Torino, Vercelli, Napoli e Reggio Emilia. Il labirinto giudiziario innescato dalla polvere d’amianto attraversa così l’Italia da nord a sud.

Da Torino a Napoli

Processo Eternit al palazzo di Giustizia di Torino (Foto LaPresse)

Dal 2016 a oggi sono partiti tre dei quattro processi in cui è stato smembrato l’Eternit bis. A Torino Schmidheiny è già stato condannato in primo grado a quattro anni di carcere per l’omicidio colposo di due operai dello stabilimento di Cavagnolo, e aspetta ora la sentenza d’appello. 

A Napoli invece i pm avevano chiesto una pena di 23 anni e 11 mesi per l’omicidio volontario di otto persone, ma la maggior parte sono già dimenticate dal sistema penale: ma il 6 aprile scorso per sei casi è scattata la prescrizione, e per il settimo, Franco Evangelista, morto nel 2009 come Balestrieri, Schmidheiny è stato assolto perché la vittima abitava nella zona ma non lavorava alla Eternit. E anche in questo caso siamo solo al primo grado. 

Il 9 giugno 2021 è iniziato alla corte d’assise di Novara (visto che a Vercelli la corte d’assise non c’è) il processo per i morti dello stabilimento Eternit di Casale Monferrato, il più grande in Italia e in Europa. Schmidheiny è accusato di omicidio volontario per la morte di 392 persone, la maggior parte delle quali si è ammalata di mesotelioma pur non avendo avuto nulla a che fare con la fabbrica, ma a causa dell’esposizione ambientale, quindi per aver respirato un’aria carica di fibre di amianto. 

Poche speranze 

Foto LaPresse

«Penso di esprimere il sentimento di tanti, non abbiamo molte speranze», ammette Assunta Prato, la cittadina di Casale che ha perso il marito, commentando il nuovo processo di Novara, «ma c’è la volontà di esserci, di fare la nostra parte, e di vedere fin dove possiamo arrivare». Anche per questo Prato, insegnante in pensione, gestisce l’aula amianto/asbesto del liceo Cesare Balbo di Casale Monferrato, uno spazio interattivo dedicato alla storia del territorio e ai danni che ha subito.

Per più di ottant’anni infatti la cittadina, che conta poco più di 30mila abitanti, è stata sede del più grande centro di produzione di manufatti in cemento-amianto d’Europa. I dipendenti della Eternit lavoravano il materiale senza che venisse adottata alcuna precauzione, e presto le sue fibre bianche superarono i confini della fabbrica per entrare nelle abitazioni, distanti solo poche centinaia di metri, nei bar, nelle chiese e nelle scuole. A Casale le vittime del mesotelioma sono già migliaia, e secondo gli esperti il picco sarà raggiunto solo nel 2025. 

«Il primo processo si è basato su un’indagine dell’ispettorato del lavoro del 1985. Oggi siamo nel 2021 e c’è un nuovo processo, ma non abbiamo ancora ottenuto giustizia», afferma Bruno Pesce, storico segretario della Camera del lavoro di Casale Monferrato e oggi coordinatore dell’Afeva, Associazione familiari vittime amianto. «Vuol dire che in Italia c’è un problema nel sistema giudiziario». 

La rivincita delle città

Casale Monferrato - Foto LaPresse

Negli anni, mentre la giustizia coltivava la sua lentezza, la società civile non è rimasta a guardare. Oggi a Casale l’enorme stabilimento Eternit non esiste più e per demolirlo l’amministrazione comunale ha rimosso più di 1.500 metri cubi di cumuli di amianto. Al suo posto, nel 2016 è stato inaugurato un parco commemorativo con il nome simbolico di Eternot, dedicato alle vittime e ai loro famigliari.

La cittadina e i 47 comuni limitrofi sono riconosciuti come Siti di interesse nazionale (Sin), e possono quindi usufruire di fondi pubblici per i lavori di bonifica. Dal 1996 al 2021, nel solo comune di Casale sono stati investiti circa 120 milioni di euro, come ha ricordato il governatore del Piemonte Alberto Cirio nella sua deposizione alla corte d’assise di Novara. Secondo l’ex sindacalista Pesce «si tratta di una cosa unica, perché nessun altro territorio ha portato avanti una bonifica così estesa e radicale».

Ma, nonostante gli sforzi, ancora oggi Casale Monferrato ha il tasso d’incidenza del mesotelioma di gran lunga più alto del Piemonte: una media di più di 60 casi all’anno ogni centomila persone, contro i sei di Alessandria, i quattro di Torino, i tre di Biella.

Tra l’inalazione delle fibre di amianto e lo sviluppo dei sintomi, infatti, possono passare anche 40 anni. «Prima che ne veniamo fuori non so quanto tempo passerà», dice Assunta Prato, «troppo tempo». La condanna di Schmidheiny non fermerà di certo le diagnosi, ma potrebbe almeno riaccendere la fiducia dei famigliari delle vittime verso un sistema giudiziario inconcludente. 

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