Parlare con un sanitario (che preferisce rimanere anonimo) di salute in carcere, significa affrontare un tema che di solito emerge solo per cronaca e mai per urgenza di dibattito politico pubblico, che sconta troppo spesso un imbarbarimento etico e morale sui temi sociali.

Eppure, nel bene e nel male, la clinica e la cura fanno parte di un sistema pubblico ben definito, anche se spesso ambivalente e lacunoso. L’assistenza sanitaria alla popolazione detenuta, infatti, è di competenza del Servizio sanitario nazionale (Ssn) e dei Servizi sanitari regionali, dove l’amministrazione penitenziaria applica le norme della legislazione italiana relative all’assistenza sanitaria dei detenuti.

La presa in carico

Le persone che perdono la libertà, secondo il racconto del sanitario, «arrivano da noi dall’esterno, per prima cosa vengono visitate e gli vengono subito fatti degli esami. Sono isolate fino a che non sappiamo che sono negativi i risultati, poi vengono messi nelle celle comuni. Alle persone viene anche proposto il prelievo per le malattie infettive, che possono rifiutare, ma non possono invece rifiutare quello della tubercolosi, perché si trasmette anche per via respiratoria ed è di facile trasmissione».

All’interno del carcere di Bologna, il direttore sanitario si è organizzato per avere più servizi possibili: c’è la possibilità di un servizio analisi, di raggi due giorni a settimana, e di ecografie due volte al mese. I servizi di ginecologia e ostetricia ci sono tutte le settimane e per quanto concerne le visite specialistiche c’è un medico cardiologo e un oculista una volta alla settimana, l’otorinolaringoiatra due volte al mese, il dentista quattro volte a settimana, pneumologo e infettivologo una volta al mese. Per l’assistenza psicologica e psichiatrica «queste figure ci sono tutti i giorni ma non bastano».

Nel carcere di Bologna ci sono 854 detenuti, tra uomini e donne, per una capienza di 500 posti, «per cui fanno il possibile ma non sempre riescono a vedere i pazienti quanto servirebbe, il numero di dipendenti non è proporzionato al numero dei detenuti». Chi lavora dentro come sanitario o educatore ha «un atteggiamento di attenzione per il sociale, lavorare qui è difficile», continua il sanitario: «Tra le figure sanitarie c’è una sensibilità per i temi della marginalità e dell’esclusione sociale: tante volte cercano di segnalare situazioni di fragilità».

Il carcere fa ammalare

Se è vero che in carcere a Bologna si può essere presi in carico e curati, vero anche è che di carcere ci si ammala e si muore. Ci sono molte patologie prodotte dall’ambiente esterno ed altre che sopraggiungono non appena si arriva ad essere rinchiusi in ambienti vecchi ed insalubri.

Per quanto riguarda l’igiene e la prevenzione, uno dei temi preoccupanti è legato alla condizione insalubre dei materassi «non vengono cambiati da più di 12 anni e sono bagnati dall’umidità, non vedono il sole e hanno la muffa». Il sanitario aggiunge che «se i medici curano la bronchite ogni due settimane ad un paziente e lui dorme su un materasso che fa schifo, è ovvio che gli tornerà».

In carcere, inoltre, le situazioni «a volte vanno al di là delle possibilità anche di chi lo gestisce» è proprio il carcere con la sua struttura che fa ammalare, fa morire e fa perdere la salute mentale. Il sanitario segnala periodi in cui ci sono solo docce fredde e si rimane senza riscaldamento per lunghi periodi «può succedere che si rompano, sono tante persone in un posto enorme e vecchio, si ammalano anche per questo. Le persone detenute avvisano gli agenti, che mandano mail per avvisare la direzione e la direzione manda qualcuno, ma non subito».

Sono strutture con riscaldamenti in ghisa e tubature vecchie ed «è ovvio che se li usi tutto il giorno, tutti i giorni per tutte quelle persone, poi si rompano». Il fatto di intervenire tardi, sembra uno dei tanti dispositivi di controllo, di uso di forza e potere: l’istituzione carceraria è in grado di controllare i detenuti, tenendoli al freddo, avendo così potere su di loro. Come ad esempio il potere di decidere quando ridar loro, o meno, il calore che gli sarebbe dovuto.

Suicidi e violenze

Se una persona si sente male in carcere, avvisa l’agente che chiama subito un sanitario, anche per piccole problematiche. Quindi si va da una piccola a una gravissima intensità: «Le prima persone che accorrono sono il medico e l’infermiere interni, anche se non in tutte le carceri c’è sempre il medico, ma a Bologna c’è sempre. Allertati dalla radio arrivano e, se la cosa è grave, chiamano il 118».

Spesso l’accesso delle ambulanze è rallentato dalla stessa struttura del carcere, fatta di accessi con porte blindate da aprire. Il carcere di Bologna, come tutti del resto, è in punto isolato della città «dunque se il 118 deve salire oltre il primo piano con la barella, si perdono minuti preziosi».

Per quanto riguarda i suicidi, uno dei più grandi problemi delle persone rinchiuse qui e nei Cpr, il sanitario afferma di aver visto diverse complessità nel tentativo di salvare le persone: «In quei casi il fatto di essere lontano dalla città e avere forti barriere architettoniche, fa sì che arrivi l’ambulanza e si debbano aprire i cancelli, l’ascensore spesso è rotto e bisogna salire a piedi e portare una barella, perdendo tempo prezioso».

Sulla questione delle violenze nel tragitto tra questura e istituto carcerario il sanitario sostiene che «su questo, tra sanitari, vedo tanta attenzione». Quando la persona arriva da fuori e viene fatto il triage iniziale «i medici devono dire se, secondo loro, le lesioni che riporta, se le riporta, sono causate da violenze nel tragitto dalla questura al carcere. Loro lo domandano alla persona che arriva, anche perché le visite avvengono, da noi, quasi sempre senza guardie all’interno dell’ambulatorio, che rimangono fuori».

Al sanitario è capitato di vedere persone con segni di violenza «so che è stato segnalato nel referto, anche se spesso le persone che arrivano in carcere non lo dicono per paura di ritorsioni successive. Ci sono stati casi eclatanti in cui la persona è arrivata visibilmente pestata e dunque gli è stato chiesto quando fosse accaduto. E’ stato poi segnalato, ma non so, non credo che ci siano state ripercussioni su chi lo avesse pestato, tutto credo si concluda con il rapporto». Se succede «qualcosa di davvero grave, hanno almeno un referto che riporta quello che è successo e l’istituto carcerario si tutela».

Il dopo Stefano Cucchi

L’impianto carcerario a Bologna è migliore rispetto ad altre carceri, afferma chi ci lavora, ma il potenziamento della clinica all’interno del carcere «deriva da tutto quello che è successo durante il Covid, comprese le rivolte dei detenuti perché non potevano più vedere e sentire i parenti». Ma, dal racconto raccolto da Domani, c’è anche un prima e un dopo la sentenza di condanna per l’omicidio di Stefano Cucchi: «Tra post Cucchi e post Covid hanno più remore a risolvere lentamente le cose, c’è un’aria di compromesso che si cerca, almeno apparentemente» anche se tutto questo si inserisce in un clima generale repressivo, ghettizzante, di istituzione totalizzante: «fatto di equilibri e dinamiche di potere che io stesso, dopo tanto tempo, fatico a comprendere».

Da quando lavora dentro, infatti, «tra i tanti mantra che si sentono ripetere ogni giorno, uno di questi è “da dopo Cucchi facciamo così”».

La sentenza è diventata, dunque, uno spartiacque: «probabilmente nonostante i pestaggi continuino sono diminuiti qui, è cambiata la parte difensiva da parte delle forze dell’ordine e anche il protocollo medico: adesso qui refertano tutto, i medici vengono chiamati per ogni piccola cosa». Un sistema carcere spesso fallimentare, messo in luce da molte associazioni per i diritti umani e condannato dalla Corte europea dei diritti umani.

Iniziare a parlare di salute in carcere, dunque, diventa fondamentale per portare il tema fuori da quelle mura e per fare in modo che vengano costantemente attenzionate. Ma anche per ricordare che la salute, fisica e mentale, è rinchiusa in una morsa asfissiante di un apparato repressivo fatto di sorveglianza, punizione e controllo.

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