Aadil ha 27 anni ed è siriano. Dal 2019 vive a Parma, adesso ha una casa, un po’ di soldi in tasca per sopravvivere, ma può anche imparare l’italiano, parlare con uno psicologo nei momenti di difficoltà e chiedere un aiuto agli esperti per trovare un lavoro che gli garantisca un futuro migliore. Aadil può fare tutto questo perché inserito in un progetto che in gergo tecnico prende il nome di “accoglienza integrata”. Grazie al servizio dell’orientamento al lavoro, Aadil era riuscito a trovare un posto ben pagato da impiegato, ma qualche mese fa è stato licenziato a causa della crisi economica provocata dal Covid. Non si è arreso e grazie ad alcune amicizie è riuscito a trovare una nuova occupazione. «Questa esperienza sarebbe stata impossibile nei centri d’asilo dove prevale una logica di controllo e di gestione anziché di emancipazione delle persone accolte. L’integrazione avviene soprattutto quando le persone costruiscono dei legami sul territorio» dice Michele Rossi, direttore del Ciac.

Il Ciac (Centro immigrazione asilo e cooperazione internazionale) è una delle prime esperienze in Italia di accoglienza integrata, nata per volontà della società civile. La sua storia inizia nel 1993, quando a Parma è stata promossa la campagna “Fermiamo un fucile per volta” per l’accoglienza e il sostegno dei disertori della guerra nella ex Jugoslavia. Poi nel 2001 il Ciac è entrato a far parte della rete istituzionale dei centri per richiedenti asilo, grazie alla legge Turco-Napolitano che destinava finanziamenti ai comuni per progetti volti all’integrazione degli stranieri. Nato a Fidenza, il progetto si è poi diffuso in tutta la provincia di Parma e oggi dà asilo a 230 persone, sperimentando pratiche di convivenza interculturale come l’ospitalità di rifugiati in famiglie italiane e il progetto “Tandem” (co-housing tra giovani italiani e giovani rifugiati).

I diversi modelli

Tra le persone accolte c’è anche Taiwo, un ragazzo nigeriano di 25 anni che è fuggito dal proprio paese per una discriminazione legata al proprio orientamento sessuale. Taiwo è riuscito a integrarsi così bene con la comunità parmense da scegliere di partecipare a un’attività di gruppo non semplice sul piano emotivo: la restituzione dei beni personali delle persone morte di Covid alle famiglie di appartenenza. Quest’attività è stata premiata anche da un’onorificenza pubblica da parte del comune di Parma. «Il suo passato difficile poteva far temere un isolamento dalla società, invece si è messo in gioco in maniera positivamente inaspettata – segnala Rossi – a riprova del fatto che un rifugiato è essenzialmente una persona in cerca di una comunità dove veder riconosciuta la propria personalità». Per capire come funziona il sistema d’integrazione italiano per i richiedenti asilo bisogna tenere a mente due sigle: Cas (centri d’accoglienza straordinari) e Sai (Sistema d’accoglienza e d’integrazione). A distinguere i due modelli c’è molto più di una consonante. «I Cas non coinvolgono gli enti locali, invece chi è nel Sai è dentro la comunità, dentro i luoghi pubblici, dentro i servizi del territorio» dice Rossi.

Infatti, i primi sono strutture individuate dalle prefetture, in convenzione con cooperative, associazioni e strutture alberghiere, secondo le procedure di affidamento dei contratti pubblici. Questi centri erano immaginati al fine di sopperire alla mancanza di posti nelle strutture ordinarie di accoglienza (ecco perché “straordinari”), ma di fatto sono diventati i luoghi dove si concentra il maggior numero di immigrati “irregolari”: secondo i dati del ministero dell’Interno quasi 50.000 dei 75.000 richiedenti asilo o beneficiari di protezione sono ospitati nei Cas, gli altri 25.000 nella rete Sai.

I richiedenti asilo presenti nelle strutture straordinarie rimangono qui in attesa che la loro domanda di protezione sia esaminata dalle commissioni territoriali competenti; un tempo che può durare persino due anni. «Lì i richiedenti asilo sono “parcheggiati” in attesa di sapere cosa ne sarà della loro vita» dice Gianfranco Schiavone, uno degli ideatori del modello di accoglienza di piccola scala e diffusa sul territorio italiano oltre che presidente del “Consorzio Italiano Solidarietà - Ufficio rifugiati onlus” di Trieste (un altro progetto di accoglienza integrata).

Quello dei Cas è un sistema che pecca di trasparenza: non sappiamo quante sono precisamente le strutture, dove si trovano e quali sono gli enti gestori. Quindi, in questa categoria, sono inclusi una molteplicità di centri, sia in termini di dimensioni che di qualità dei servizi offerti. Tuttavia, per gli operatori dell’accoglienza integrata come Michele Rossi, i due modelli non sono minimamente paragonabili: «Molto spesso le persone che arrivano hanno delle ferite psicologiche; per curarle, occorre la definizione di progetti individualizzati a opera di un’équipe multidisciplinare. Tutto ciò non è previsto nei Cas».

Anche Schiavone si rifiuta di mettere i due sistemi sullo stesso piano: «C’è stato un miglioramento dei servizi offerti dai Cas, ma è un miglioramento relativo perché continuano a essere favoriti centri di grandi numeri (fino a 600 persone ndr) dove si verifica una sproporzione incredibile tra il numero degli operatori sociali e il numero di ospiti con tutto ciò che ne consegue sulla carenza dei servizi».

Il Sai rappresenta invece il ripristino del sistema Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) dopo la parentesi dei “decreti sicurezza” di Salvini che aveva escluso da questi centri i richiedenti asilo che non avevano ancora visto concluso l’iter di riconoscimento della loro protezione. Il Sai è costituito dalla rete degli enti locali che per la realizzazione di progetti di accoglienza integrata accedono al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo (finanziato per la metà dall’Unione europea). Nel 2021 sono stati finanziati 760 progetti, coinvolgendo 1.800 comuni circa (dati ministero dell’Interno). Questo sistema prevede la partecipazione volontaria degli enti locali alla rete dei progetti di accoglienza e l’implementazione sul territorio dei progetti da parte di associazioni del terzo settore. Qui i richiedenti asilo o le persone che beneficiano già di una protezione hanno la possibilità di essere accolte per sei mesi, eventualmente prorogabili.

Secondo la legge 173/2020 – approvata dal secondo governo Conte – che ha modificato i “decreti sicurezza” introdotti da Salvini, i Cas non sono più una tappa obbligata per i richiedenti asilo, ma strutture che dovrebbero attivarsi in via temporanea solo nel caso in cui non ci sia disponibilità di posti nel Sai. La persona ospitata nei Cas dovrebbe rimanere in quelle strutture solo il tempo necessario all’espletamento delle operazioni utili alla definizione della posizione giuridica dello straniero come richiedente asilo (verbalizzazione della domanda d’asilo e avvio dell’iter). Peccato che la riforma sia rimasta lettera morta per diversi aspetti. Nel caso in esame, non sono stati approvati i decreti attuativi per definire un regime transitorio che gradualmente ampli i posti disponibili nel Sai e svuoti i Cas. Il risultato, come si vede dai numeri, è che il modello prevalente rimane quello dei Cas. «Non c’è un vero investimento né una strategia per arrivare a un sistema unico d’inclusione sociale» dice Schiavone.

Le proposte

Il carattere volontario della partecipazione degli enti locali alla rete di accoglienza integrata è chiaramente uno dei limiti del sistema Sai: 1.800 comuni su 8.000 circa non raggiungono nemmeno un quarto del totale. Inoltre, c’è un’evidente sproporzione di progetti tra regioni meridionali e settentrionali: ai primi posti troviamo Sicilia e Calabria con 100 progetti l’una, negli ultimi troviamo Friuli-Venezia Giulia con 9 e Trentino-Alto Adige con 5 progetti. «È da notare che una regione ricca come il Veneto ospita solo 20 progetti» sottolinea Rossi.

Dietro la carenza di partecipazione non si nascondono solo motivi ideologici, ma anche altre ragioni. «La difficoltà maggiore è quella di trasformare i progetti in effettiva realtà. Quindi, a fronte di una progettualità migliore e un maggiore sostegno economico, più comuni potrebbero aderire alla rete di accoglienza integrata» dice Matteo Biffoni, sindaco di Prato e delegato Anci (Associazione nazionale comuni italiani) per le politiche per l’integrazione. Perché un comune dovrebbe aderire al sistema Sai? «C’è un ritorno di lavoro e di servizi per tutta la comunità; ad esempio, l’attivazione di uno scuolabus in alcuni comuni del sud con i fondi nazionali per l’asilo potrebbe andare a vantaggio anche dei bambini autoctoni» afferma Biffoni.

Rossi pensa che per allargare l’adesione degli enti locali e superare la precarietà della rete Sai, «bisognerebbe concepire i servizi dell’accoglienza integrata come servizi socio-assistenziali al pari di quelli attivi per gli anziani, i giovani e i disabili». Così facendo, il sistema ordinario di accoglienza diventerebbe parte integrante del welfare nei diversi livelli di governance: nazionale, regionale e locale. Questa è una delle sette proposte presentate nel rapporto “L’accoglienza di domani” da Europasilo: una rete nazionale di venti associazioni (tra cui ci sono il Ciac e il Consorzio italiano solidarietà) impegnate nell’accoglienza che si occupano di promuovere buone pratiche d’asilo. Tra le tesi si trova anche il superamento del modello del Cas e l’istituzione di un “Ente nazionale per il diritto d’asilo a garanzia e tutela del sistema”. Inoltre – si legge nel documento – «va superata l’ambiguità rispetto al ruolo del terzo settore nell’organizzazione del sistema e il connesso annoso problema della modalità di affidamento del servizio». Infatti, «una volta inquadrato quale parte integrante del sistema del welfare, il sistema Sai dovrebbe articolarsi sul principio di sussidiarietà con il terzo settore e non su quello della concorrenza, che vige per il codice degli appalti».

Quando chiediamo a Rossi se hanno avuto almeno un riscontro politico alle loro proposte ci risponde: «Ci hanno detto che questa non è la fase politica opportuna per occuparsi di questi temi. Sono vent’anni che ce lo sentiamo dire». Infatti, è da vent’anni che Rossi e Schiavone – come tanti altri – si impegnano per far sì che i richiedenti asilo siano ben accolti e inclusi nelle nostre società. Eppure, in tutti questi anni non sono stati fatti grandi progressi, a detta di Schiavone: «Se nel 2000 mi avessero detto che dopo vent’anni il sistema di accoglienza integrata sarebbe stato ancora così incompiuto e non ben radicato sul territorio non ci avrei creduto. E ho la percezione che lo scenario non cambierà a breve».

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