Quanti euro ha rubato Angelo Burzi, l’ex consigliere regionale del Piemonte che si è tolto la vita alla vigilia di Natale? L’ennesima corrida tra garantisti e giustizialisti, giocata attorno al suo cadavere, come al solito non aiuta a capire un bel niente. Le verità di questa vicenda tragica vanno rintracciate nei dettagli, non certo negli slogan.

Burzi si è negato l’esistenza a 73 anni, «interrompendo il gioco e abbandonando il campo in modo definitivo»: agli atti esiste una email, spedita ad amici e colleghi, che indica tre ragioni alla base del gesto. La prospettiva di prossimi «interventi chirurgici e di terapie per nulla gradevoli», la decisione (definita «peggiore» rispetto alla scoperta della malattia) della Corte d’appello di rideterminare la sua pena in anni tre di reclusione per il reato di peculato e, infine, la conseguenza di vedersi sospeso il vitalizio, su cui Burzi contava, «non essendomi arricchito» con la politica.

Ha ritenuto non più tollerabili «la sofferenza, l’ansia, l’angoscia che in questi anni ho generato, oltre che a me stesso, anche attorno a me nelle persone che mi sono più care», cui ha preferito somministrare «oggi, adesso, una dose di dolore più violenta, ma una tantum» piuttosto che trascinare quei sentimenti per un tempo indeterminato. Collegare direttamente un suicidio a una ragione specifica è sempre operazione arrischiata, spesso in malafede. Semmai, sarà utile notare come il suicidio di Burzi possa aiutare a gettare una luce nuova, non scontata, sul tema dei rapporti tra magistratura e politica.

L’indagine

Burzi, ingegnere, tra i fondatori di Forza Italia in Piemonte negli anni Novanta e, per ultimo, esponente del gruppo di fuoriusciti dal Pdl di Progett’Azione, era uno dei venticinque imputati nel processo principale di Rimborsopoli, nato sostanzialmente da alcune dichiarazioni rese a una tivù locale da un consigliere regionale dello stesso suo partito di provenienza che aveva accusato compagni di casacca – e non – di approfittare delle maglie larghe dei rimborsi, bollando il sistema come «una fogna».

L’indagine susseguente della Guardia di finanza aveva portato alla scoperta di una scoppiettante sequela di beni e utilità personali pagati con soldi pubblici: tagliaerba, valigie, biglietti per eventi sportivi, night club, weekend all’estero, ferramenta, centri estetici, cd musicali, tabacchi, giocattoli, gioielli, multe per eccesso di velocità, mobilio e altre amenità, per i quali erano stati chiesti e ottenuti rimborsi senza che nessuno, in regione, avesse battuto ciglio. In udienza, un consigliere aveva provato a difendersi sostenendo di essersi recato a teatro con ticket a carico della regione per verificare la qualità degli spettacoli.

Si raggiunsero altre punte di spregio istituzionale notevoli, da parte di rappresentanti del popolo che avevano inteso la nomina a palazzo Lascaris come la vincita di cinque anni di vita a sbafo e si erano fatti ripagare pure le cresime dei nipoti. Le cronache trovarono irresistibile il costume da bagno (verde, il colore della Lega) messo a rimborso dall’allora governatore Roberto Cota, che figurava tra gli assolti in primo grado e condannati dell’ultima sentenza in appello-bis, proprio come Burzi.

Sull’episodio specifico si ricostruì, peraltro, che si era trattato di un errore materiale dell’addetta alla contabilizzazione delle spese: la marca dell’indumento (Vineyard Vines) e il costo dello stesso potevano suggerire trattarsi di un pasto in vineria.

Ma Burzi, cosa aveva fatto? Gli fu contestato il peculato – cioè l’appropriazione indebita commessa da un pubblico ufficiale – per spese proprie come consigliere Pdl e come capogruppo di Pdl e del gruppo Progett’Azione. Nel complesso gli è stato chiesto conto di 12.784 euro per ristoranti, 432 euro per spese di patrocinio legale, 260 euro per un acquisto di fiori, più una singola fattura plurima da 1.400 euro per una serie di pasti pagati in un’unica soluzione.

E altri 13.000 euro circa di scontrini di colleghi consiglieri da lui autorizzati al rimborso in qualità di capogruppo. In tutto 28.000 euro di spese contestate effettuate da maggio 2010 a settembre 2012: 28.000 euro in 28 mesi, mille euro al mese per i quali l’azione penale si chiude per “morte del reo” a dieci anni dai fatti.

Scontrino per scontrino

Nel maggio 2015, a Torino, Burzi si presentò in aula davanti alla presidente Silvia Bersano Begey per rispondere degli addebiti. Il giudice mostrò di apprezzare «la analitica difesa, fondata sulla ricostruzione ex post – per quanto possibile – dalla sua agenda per quanto attiene agli impegni che riteneva, per il commensale (o i commensali) e l’oggetto, aventi natura istituzionale».

Non c’erano ricevute per Rolex, né resort di lusso, né massaggi. Nel corso dell’esame, Burzi tentò di rammentare, scontrino per scontrino, con chi avesse pranzato nel tale giorno del tale mese, anche sei o sette anni prima. Fece notare, depositando gli estratti conto, che – onde evitare confusioni – era solito pagare con un bancomat le spese di ristorazione “di lavoro”, e quelle certamente private con un’altra carta. Risultava.

Il pubblico ministero, tuttavia, gli imputava un certo numero di irregolarità. A volte perché Burzi risultava aver pagato nel tale locale, mentre il suo telefono agganciava una cella in un’altra zona della città. Un riscontro che i giudici di primo grado esaminarono risolvendolo a suo favore: con un accertamento tecnico, la difesa aveva dimostrato la presenza di dati non affidabili nell’abbinamento di indirizzi di locali e posizione del telefono catturata dalle celle telefoniche.

Il giudizio di primo grado assolse Burzi, giudicando legittime sia le spese sostenute per il patrocinio legale, sia quelle per l’acquisto di fiori (non rose per un’amante ma una corona mortuaria acquistata a nome del gruppo consiliare), sia la fattura per la realizzazione di un Dvd di propaganda del gruppo del Pdl e non, come ipotizzato, per la campagna elettorale personale. Per le altre spese, quelle dei pasti, definite «ambivalenti», accolsero la difesa di Burzi, che le aveva ritenute «ascrivibili alle spese di rappresentanza, perché sostenute nell’ambito della sua attività istituzionale e per ragioni a essa connesse».

Per le spese illegittime altrui di cui rispondeva come capogruppo per omessa verifica, invece, mancava «la consapevolezza di concorrere in una condotta criminosa», talora perché il consigliere disonesto gli aveva presentato documentazione artefatta che, a un esame non troppo approfondito, poteva apparire autentica.

Più burocrazia che ideologia

Per capire come la sentenza di assoluzione piena del 2016 («il fatto non sussiste») sia divenuta una condanna altrettanto piena nel 2018 in Corte d’appello (che condannò tutti e venticinque gli imputati, anche i quindici assolti in primo grado) è necessario addentrarsi nei gangli di una normativa non così intuitiva ed esposta a interpretazioni variegate.

Non visioni garantiste o giustizialiste, come ci indica un dibattito pigramente ideologico e avulso dai fatti: semmai, interpretazioni più burocratiche che psicologiche, argomenti che appaiono di primo acchito più adatti a un processo amministrativo che a quello penale.

In appello si stabilì che Burzi fosse colpevole perché aveva interpretato le norme sulla rappresentanza in modo ingiustificatamente estensivo e che non avesse vigilato come dovuto sulle spese irregolari autorizzate ai suoi consiglieri. E il nodo è tutto qui. Nessuno ha contestato a Burzi (ad altri sì, eccome) l’incongruenza nelle spese: erano pasti in giornate di lavoro, non borse griffate o maquillage. E per un ammontare ragionevole rispetto ai valori di mercato: niente vini di pregio né menu di lusso. Solo che, secondo i giudici, non erano comunque rimborsabili.

La legge regionale allora vigente in materia, datata 1972, era piuttosto vaga sul tema dei rimborsi concessi ai gruppi. Non stilava elenchi tassativi di spese ammesse e non ammesse. E se non c’era bisogno di avvalersi di una perizia tecnica per capire che il weekend a Madrid con la moglie, o l’acquisto di una Playstation al figlio, non rientrassero nelle spese di rappresentanza del gruppo, è vero anche che la prassi ultradecennale in seno a tutte (dicansi tutte) le forze politiche in tutti i consigli regionali d’Italia aveva sfumato i confini della correttezza.

Cosicché la Corte d’appello insistette su un punto: al di là dei delinquenti che si pagavano il tappeto in soggiorno e l’impianto stereo in automobile coi soldi della regione, ai consiglieri toccava fare una distinzione a monte. E cioè: le somme di cui si parlava, dette “fondi di funzionamento”, non erano genericamente rimborsi ai consiglieri ma somme messe a disposizione dei gruppi consiliari.

Non dei singoli, né dei partiti di cui pure erano espressione. Un concetto non così lapalissiano per il cittadino poco avvezzo alla macchina istituzionale ma che i consiglieri, secondo i giudici, dovevano avere chiaro essendo peraltro legislatori, e avendo loro stessi nel 1972 creato la norma poi invocata per difendersi.

Il singolo e il gruppo

Una spesa connessa all’attività politica, insomma, non era rimborsabile a meno che non fosse connessa a iniziative del gruppo. Come statuì la Corte dei conti nel 2012, rimborsabili con quei soldi erano soltanto le spese «finalizzate ad apportare vantaggi che l’ente trae dall’essere conosciuto»: come poteva essere un rinfresco in cui si presentasse l’attività politica del gruppo e si offrisse da mangiare, da bere, e pure qualche gadget di modesto valore.

Mentre il pasto consumato dal consigliere con l’ospite per promuovere la propria attività, o per discutere di problemi della città o della regione ma slegato da iniziative del gruppo, non valeva. Le spese per l’acquisto di quotidiani, rassegne stampa e libri erano ammesse, perché compatibili con l’attività di un gruppo. Quelle che i consiglieri per decenni hanno sostenuto per incontrare membri della società civile – giornalisti, professionisti, elettori – quelle no.

Se Burzi parlava col cronista della viabilità o di politiche di occupazione o dello sport, come peraltro ammesso in alcune circostanze, stava facendo il suo lavoro di consigliere ma doveva farsi bastare emolumenti e diarie previste per i consiglieri. I pranzi di lavoro rimborsati con i soldi della legge del 1972 dovevano avere uno scopo promozionale o comunque dovevano essere espressione di attività politica del gruppo consiliare.

Un principio che, apparentemente, implicherebbe il dovere per il giudice penale di indagare in dettaglio i contenuti specifici di ogni conversazione fatta da un politico con le gambe sotto al tavolo. Il confine è sottile ma su questo si gioca il giudizio se il politico di turno sia o non sia un ladro, visto che l’articolo 314 del codice penale definisce colpevole di peculato colui che «avendo, per ragione del suo ufficio o servizio, il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria».

Nella sentenza di appello, i pranzi «ambivalenti» di Burzi passati in primo grado vengono classificati come soldi rubati, al pari dell’acquisto del tagliaerba: «Le somme con cui veniva costituito il fondo per il funzionamento dei Gruppi costituivano una sorta di “zona franca”, di elargizione liberale di denaro da parte della regione che i singoli consiglieri potevano “modellare” e “piegare” liberamente in ragione del senso politico personale».

Ma, come si vede, qui non si tratta tanto di un attacco della magistratura alla politica quanto di un giudizio che dà rilievo penale a una pratica amministrativa dai confini incerti: tanto che, sulla base degli stessi elementi di prova, il giudice di primo grado la qualificò come lecita mentre l’appello e la Cassazione la bollarono come reato proprio. Eccependo che, se di errore si era trattato, non era stato un errore di fatto ma di diritto.

Tradotto: Burzi non si era sbagliato in buona fede a prendere soldi che riteneva suoi e invece non lo erano, ma aveva consapevolmente chiesto di farsi rimborsare pranzi con soldi pubblici, ignorando di non poterlo fare. E se – ragionarono in appello – i consiglieri avevano dubbi sulle finalità dei soldi versati ai loro gruppi, potevano informarsi prima di usufruirne, visto che nessuno aveva dato loro il diritto di considerarli a disposizione per il proprio mestiere di politico regionale. Neanche la consuetudine, perché era contro la legge.

Nei gradi successivi al primo, la difesa di Burzi ha insistito sulla «natura giuridica composita dei gruppi consiliari e sul rilievo dell’attività compiuta dal singolo consigliere, sulla nozione e sull’ambito applicativo delle spese di rappresentanza», argomentando che vi sarebbero dovute rientrare anche quelle «di cortese ospitalità e quelle esterne rispetto a contesti ufficiali, se non aventi connotazioni meramente personali e di pura liberalità», e rimarcando anche che l’attività singola del consigliere potesse essere intesa come spesa del gruppo.

La risposta è stata un niet: attività singola sì, ma purché «in modo conforme alle iniziative individuate dal gruppo per le finalità istituzionali di questi». Non potevano essere imputate a quel fondo né spese politiche dei partiti, se non erano connesse ad attività politiche del gruppo; né spese per la personale attività politica dei consiglieri.

La Cassazione, nel 2019, decise che, per le spese sostenute a titolo personale, a Burzi andasse confermata la condanna; per altre ipotesi in concorso con altri, rinviò il giudizio in appello, non ravvisando provato il concorso nel reato.

«Alla fine del processo di appello, 14 dicembre u.s., ho totalizzato una condanna a tre anni per peculato, svolto continuativamente dal 2008 al 2012», ha scritto Burzi nella sua missiva di addio. «I possibili sviluppi stanno in un possibile nuovo ricorso in Cassazione, che avrà con grande probabilità un esito nuovamente negativo, diciamo alla fine del 2022. E qui iniziano i problemi seri, perché interverrà la sospensione dell’erogazione del vitalizio per la durata della condanna. Probabilmente si sarà fatta nel frattempo nuovamente viva la Corte dei conti, pretendendo le conseguenze del danno di immagine da me provocato, diciamo non poche decine di migliaia di euro».

E sì, perché la magistratura contabile già gli aveva chiesto conto.

La differenza con Mani pulite

Trent’anni fa, l’inchiesta Mani pulite aveva messo in scena uno schema diverso. La magistratura perseguiva reati che i politici spesso rivendicavano di aver commesso, ma in nome di una “ragion politica” intesa come implicitamente superiore alla legge. Sergio Moroni, l’esponente socialista che si suicidò rivendicando la sua innocenza, lasciò scritto di non sopportare l’essere stato «accomunato nella definizione di ladro». Il caso di Angelo Burzi è completamente diverso. Indica che i tempi sono cambiati e, se analizzato, aiuta a comprendere come la stanca polemica sui giudici che aggrediscono la politica sia ormai vecchia e inutile: da una parte la curva dei «un ladro di meno»; sul fronte opposto, chi legge ogni vicenda penale che tocchi un politico come evidenza di ordalìa del potere giudiziario.

Per l’allergia del protagonista alla dabbenaggine e alla semplificazione grossolana delle questioni, e per rispetto a una figura unanimemente considerata figlia della classe dirigente sabauda di maggior dignità, è meglio che Burzi non sappia di essersi offerto, con il suo ultimo atto, come vessillo uguale e contrario di un confronto asfittico tra fazioni, tanto estreme da darsi inconsapevolmente di gomito.

Nell’archivio di Radio Radicale c’è il documento audio della autodifesa di Burzi davanti ai giudici, che ci consegna una chiave di lettura più attuale: quella della giustizia penale costretta a decidere se l’imputato meriti o non meriti la galera sulla base di complesse valutazioni di ordine giuridico su norme amministrative non chiare neppure per consiglieri in buona fede, confuse da prassi risalenti e contraddittorie. A un certo punto, riguardo la ricostruzione di una ricevuta per un pasto da pochi euro, l’imputato si rivolge alla presidente scusandosi per la lungaggine nel raccapezzarsi, nel ricordare circostanze, facce, piatti ordinati.

«Ma per me», si giustifica, «questa è la più infamante delle accuse». Il peculato per lui era un disonore: eppure non si difese rivendicando la sua azione politica, bensì dando spiegazioni su ogni scontrino, antipasto per antipasto, convinto di non aver speso un euro a uso privato. Non come un politico che si sente attaccato in quanto tale dalla magistratura, ma come un cittadino al quale la patente di ladro arriva per via burocratica e assume l’atteggiamento del contribuente onesto che ha ricevuto una cartella pazza.

E la cartella pazza gliela manda una giustizia penale che somministra, giustamente, anni di galera per un reato infamante come il peculato ma che, una volta fissato (con fatica, stante il giudizio di assoluzione piena in primo grado) un confine tra lecito e illecito non ha armi, codici e giurisprudenza alla mano, per distinguere tra peculato e peculato. Tra il dolo di chi si compra un tagliaerba con il denaro pubblico e quello di chi offre il pranzo a un architetto per parlare del futuro urbanistico di una città. Ma lo fa coi soldi destinati ad altre spese, magari meno efficaci, magari meno “giuste”.

Se, a quell’architetto, il gruppo di Burzi avesse chiesto e pagato una consulenza urbanistica, sarebbe stata rimborsabile. E così, tra un imputato accusato di aver speso 500 euro al mese per pranzi di lavoro dagli incerti contenuti e uno accusato di aver rubato ogni mese 5.000 euro pubblici per abbigliamento, biglietti per teatri e stadi, night club, benzina e manutenzione della propria autovettura, tabacchi, ferramenta, fiori, alcolici, articoli per la casa e centri estetici, per un totale di 144.000 e rotti euro, al primo sono stati rifilati tre anni di reclusione, al secondo quattro e mezzo.

E se fosse questa, la vera crisi del processo penale che il suicidio di Burzi ci indica?

 

© Riproduzione riservata