Giorgio Di Bartolomeo è un boss di vertice del clan Ascione, formazione criminale che controlla il territorio di Ercolano, in provincia di Napoli. Da qualche giorno è tornato un uomo libero perché sono scaduti i termini di custodia cautelare in carcere a seguito del pronunciamento della Corte di cassazione che ha annullato la sentenza di condanna a venti anni di carcere comminata dalla Corte di appello di Napoli. Dario Vannetiello, avvocato del boss, ha inserito tra i motivi di ricorso alla Suprema corte anche la legittima difesa per come riformulata, nel 2019, dal governo Conte I. «La decisione assunta appare clamorosa non solo perché trattasi del terzo annullamento disposto, ma anche perché sono stati ritenuti insufficienti per confermare la penale responsabilità le dichiarazioni di ben 13 collaboratori di giustizia che all’unisono indicavano il Di Bartolomeo Giorgio quale esecutore», dicono l’avvocato Vannetiello e Luigi Palomba.

Il boss è stato condannato, in secondo grado, per omicidio volontario, accusato di aver ucciso il rivale Carlo Polese in data 19 agosto 2003. Il processo si è trasformato in un’altalena di pronunciamenti, condanna in secondo grado annullata dalla Cassazione, nuova condanna in secondo grado e ora un nuovo annullamento. I fatti contestati risalgono a 18 anni fa. In quel periodo era in corso una guerra di camorra a Ercolano tra il clan Birra (di cui la vittima è affiliato) e quello Ascione (di cui è al vertice Di Bartolomeo). Quel giorno c’è stato uno scontro a fuoco nei pressi del fortino del clan Ascione, il palazzo denominato La Moquette, dove vive Di Bartolomeo. Dopo il ricovero in ospedale, Polese muore.

Le indagini

Gli inquirenti non riescono a ricostruire quanto accaduto fino a quando, nel 2014, undici anni dopo, i collaboratori di giustizia raccontano i fatti e vengono ritenuti credibili dai giudici di merito. Il pentito Salvatore Cefariello racconta che dal palazzo provenivano le voci di una donna che urlava «Giorgio non sparare». Anche il pentito Giovanni Durantini, partecipe dell’assalto al palazzo Moquette, concorda nel ritenere responsabile Giorgio Di Bartolomeo, genero del boss Raffaele Ascione. In tutto sono 13 i pentiti che parlano nel processo e accusano l’imputato.

In pratica quel giorno, cinque membri del clan Birra si recano presso il fortino del clan rivale per una spedizione punitiva, non armati, e ottengono come risposta colpi di pistola e l’uccisione di un affiliato. Nelle sentenze c’è anche il riferimento alla legittima difesa, invocata dagli avvocati della difesa, ma respinta nei pronunciamenti di condanna per diverse ragioni. La prima perché gli affiliati al clan Birra non avevano ancora scavalcato; la seconda perché l’arma era detenuta illegalmente e il boss avrebbe riconosciuto gli uomini del clan rivale sparando appena questi erano in procinto di arrampicarsi sul muro di recinzione. La terza è che la legittima difesa non può scattare quando c’è una sfida in corso, quando, come in quel periodo, c’è una guerra.

Nel nuovo ricorso contro la sentenza di secondo grado, però, l’avvocato torna sulla questione della legittima difesa. Secondo gli avvocati è invocabile anche da un camorrista, soprattutto in ragione delle modifiche normative sopraggiunte nel 2019. Il ragionamento degli avvocati procede per gradi. Di Bartolomeo, se ritenuto responsabile dell’omicidio, può invocare la legittima difesa perché c’era un pericolo imminente per la presenza di cinque persone in procinto di scavalcare. 

All’obiezione possibile sul fatto che non fossero armati, la difesa replica invocando la legittima difesa putativa perché è ragionevole presumere che quando cinque persone scavalcano almeno uno sia armato e che, comunque, siano in grado di offendere.

Da ultimo c’è il richiamo alla riforma del 2019. La difesa fornisce una interpretazione estensiva della norma, voluta dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini: «Un soggetto non può reagire dopo essere stato ammazzato, ma soltanto prima che accada». Secondo la difesa del boss, la riforma stabilisce che nessuna reazione della vittima dell’intrusione può ritenersi illegittima. Quando c’è violazione di domicilio, il giudice non deve porsi il problema della proporzionalità tra attacco ricevuto e difesa. Questo significa avere una licenza in bianco a reagire. Una licenza anche per i camorristi. Ora la Corte di cassazione, nelle motivazioni, chiarirà se tra i motivi di annullamento della condanna c’è anche la legittima difesa. 

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