La Comunità di Sant’Egidio, per bocca del presidente Marco Impagliazzo, l’1 luglio ha lanciato l’allarme con una conferenza stampa ad hoc. A tema l’emergenza caldo e il conseguente rischio per gli anziani, con tanto di numeri: nel nostro paese, è stato detto, sono 9 milioni e trecentomila le persone sole, di cui 4,4 milioni con più di 65 anni. Impagliazzo ha chiesto alle istituzioni «un cambio di mentalità sugli anziani, che sono e diventeranno sempre più la maggioranza della popolazione: dobbiamo renderci conto che caldo e solitudine non sono esigenze temporanee».

È la categoria più a rischio in queste e altre circostanze, ma, paradossalmente, tra le categorie cosiddette vulnerabili, quella degli anziani è tra le poche a non disporre di uno strumento giuridico internazionale specifico.

È un vuoto pesante, che si evidenzia soprattutto nelle emergenze, non solo quella climatica, ma anche guerre, migrazioni e pandemie. Esistono convenzioni per i rifugiati (1951), per i minori (1989), per le persone con disabilità (2006) e per le donne vittime di violenza (Convenzione di Istanbul, 2011, in ambito europeo), ma nulla di simile per gli anziani.

Il professor Vincenzo Lorubbio, docente di Diritto internazionale all’Università del Salento, è parte attiva del progetto Prin Pnrr 2022 “The right to independent living as a new frontier of justice: older people, urban spaces and the law”, che coinvolge anche le Università di Ferrara, Brescia e Salerno. Tra gli obiettivi c’è l’analisi delle ragioni di questa assenza e delle prospettive potenziali.

Gli ostacoli 

Perché una convenzione per gli anziani ancora non c’è? «Il primo ostacolo», spiega Lorubbio, «è la difficoltà di definire in modo univoco la categoria di “anziano”. Le diseguaglianze socio-economiche tra le aree del mondo rendono impossibile fissare una soglia d’età universale: invecchiare in Europa o in Africa non è certo la stessa cosa».

Un secondo problema, forse ancor più decisivo in relazione a questo vuoto normativo, è un pregiudizio grave e radicato.«“Si tende a identificare l’anziano con il malato, e così si parla esclusivamente di salute e non autosufficienza, mentre la tutela della persona anziana non riguarda solo la salute intesa in senso medico-clinico»

C’è anche molto altro, in effetti: partecipazione, inclusione, lotta all’emarginazione, non discriminazione, diritto a non essere istituzionalizzati forzatamente.«E c’è anche un fattore spesso ignorato, la povertà: molti anziani non riescono a soddisfare nemmeno i bisogni essenziali, proprio nel momento della vita in cui le energie diminuiscono».

Se non esiste ancora un documento vincolante a livello “globale”, non manca però una significativa esperienza a livello internazionale “regionale”: la Convenzione interamericana sui diritti umani delle persone anziane (2015), promossa dall’Osa (Organizzazione degli Stati Americani) e ratificata da dieci stati, tra cui Argentina e Brasile.

La mancanza, come si diceva, si fa più grave nelle emergenze. «Basta pensare», spiega Lorubbio, «che durante la pandemia da Covid, in alcuni paesi si è arrivati ad applicare un criterio anagrafico per l’accesso ai pronto soccorso, penalizzando gli anziani. Un vero e proprio esempio di ageismo, discriminazione basata sull’età. Ma vale anche per le crisi ambientali e migratorie: nelle nostre pubbliche discussioni parliamo quasi sempre dei giovani che arrivano, quasi mai degli anziani che restano nei paesi d’origine, spesso in condizioni disumane. L’anziano, nelle emergenze, diventa letteralmente invisibile».

Gli spiragli 

Eppure, a livello internazionale, sembrano esserci finalmente le condizioni per un passo avanti. Nel 2010 l’Onu ha istituito l’Open-Ended Working Group on Ageing (Oewg), un gruppo di lavoro con il compito di valutare la protezione internazionale degli anziani. Solo nel 2024 il gruppo ha concluso i lavori, adottando la decisione 14/1, che afferma la necessità di «uno strumento giuridicamente vincolante per promuovere, proteggere e garantire tutti i diritti umani delle persone anziane». A seguire, la risoluzione A/RES/78/324 dell’Assemblea Generale ha invitato gli organi competenti dell’ONU a dar seguito alle raccomandazioni dell’Oewg. «Un passo avanti importante» secondo Lorubbio.

Il caso italiano 

Non troppo rosea, invece, è la situazione dell’Italia su questo tema. «Le poche norme rilevanti, come l’art. 25 della Carta Sociale Europea, sono tuttora largamente disattese».

Nel 2023, grazie al Pnrr, è stata approvata una legge delega sull’assistenza agli anziani, che includeva anche il concetto di invecchiamento attivo. Il D.lgs. 29/2024 ha recepito parte di quell’ambizione, promuovendo dignità, autonomia e inclusione, e ha introdotto strumenti come la valutazione multidimensionale, la telemedicina, il senior co-housing, il turismo lento e intergenerazionale. Inoltre il decreto, per la prima volta, distingue tra “anziano” (over 65) e “grande anziano” (over 80).

«Eppure, nonostante questo, permangono limiti strutturali. Il decreto», spiega Lorubbio, «ha ridotto fortemente la portata della legge delega. La “prestazione universale”, pensata come misura strutturale e graduata, è diventata sperimentale per il biennio 2025–2026, destinata solo a ultraottantenni con gravissima non autosufficienza e Isee sotto i 6.000 euro. Si stima che ne beneficeranno appena 25mila persone, su oltre un milione di anziani non autosufficienti. Le risorse, 250 milioni nel 2025 e 250 nel 2026, sono limitate e non accompagnate da un piano di transizione strutturale».

Si torna alla questione iniziale: difficoltà e lentezze di questo tipo dimostrano l’urgenza di una convenzione internazionale. «Non sarebbe solo una questione normativa, ma un segnale culturale. Servirebbe a superare la visione riduttiva dell’anziano come destinatario passivo di assistenza e a riconoscerlo come persona pienamente titolare di diritti, portatrice di bisogni e aspirazioni bio-psico-sociali. Una nuova tappa necessaria nel processo di specificazione della tutela dei diritti umani, come già avvenuto per i minori e per le persone con disabilità».

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