Un brutto incidente che spezza la vita di un ragazzo da poco trasferitosi a Milano con grandi sogni lavorativi e una carriera tutta da costruire. L'immenso dolore di una famiglia che si scopre improvvisamente mutilata nel modo più doloroso e straziante. La volontà di mantenere vivo il ricordo del proprio figlio con un libro che raccontasse la sua grande passione - la cucina - per la quale aveva raggiunto il capoluogo lombardo con l'obiettivo di diventare uno chef. Uno di quelli affermati, magari, ospiti di tante trasmissioni televisive che ne hanno consacrato la fama popolare. 

La tragica scoperta di non poter recuperare gli effetti personali «digitali» del figlio, quelli mantenuti nel telefonino e «sequestrati» di fatto da Apple dopo la sua morte. Foto, video e ricette che sarebbero stati utilizzati per comporre questo libro, irrecuperabili dopo che il telefonino era andato distrutto per l'impatto accidentale e che sarebbero serviti anche a «colmare - almeno in parte - quel senso di vuoto e l’immenso dolore che si accompagna alla prematura perdita di un proprio caro».

Questa vicenda, riassunta in estrema sintesi, è quella che si è trovata davanti il giudice Martina Flamini del tribunale di Milano, al quale si sono rivolti i genitori di questo ragazzo scomparso per ottenere ciò che fino a quel momento era stato loro negato dalla filiale italiana grande multinazionale americana dell'elettronica di consumo, che distribuisce l’iPhone, il più famoso modello di smartphone al mondo. Ovvero poter recuperare i contenuti che il ragazzo aveva creato e salvato sul suo telefonino e che erano finiti nel cloud, il grande spazio virtuale cui si accede tramite il web e dove sono stipati miliardi di foto, video e documenti che eccedono la memoria degli smartphone.

Un grande magazzino digitale che Apple, ma non solo lei, mette a disposizione di chi è proprietario di uno dei suoi apparecchi per garantire ai suoi consumatori uno spazio di memoria aggiuntivo, sempre utile in tempi in cui i telefonini sono anche macchine fotografiche sofisticate e molto altro.

Questa storia è a lieto fine, per fortuna. Il giudice, con un'ordinanza cautelare che Domani ha potuto consultare, ha infatti accolto la richiesta della famiglia dopo il suo ricorso d'urgenza e condannato Apple a fare tutto ciò che è necessario per permettere ai genitori del ragazzo di recuperare i dati stipati nel cloud che si sarebbero persi, per la stessa ammissione della multinazionale, dopo un certo periodo di inattività. La società americana, condannata a pagare anche le spese della causa, non si è, peraltro, neanche costituita in giudizio ed è stata dichiarata contumace. Un atteggiamento che rivela forse un filo di arroganza verso la richiesta dei genitori che probabilmente la società che fu di Steve Jobs non considera come degna di interesse, a tal punto da non dover neanche esporre le proprie ragioni davanti al giudice.

Al contrario per la sua peculiarità, per l'atteggiamento di Apple, per la delicatezza del tema, questa vicenda non va liquidata con una semplice notazione di cronaca. Nasconde, invece, una serie di temi incredibilmente importanti che toccano tutti noi: la proprietà dei nostri dati, la nostra identità digitale, abbreviata spesso come «ID» ovvero il nostro passaporto che ci rende unici e riconoscibili non nel mondo reale, ma in quello virtuale del web e delle sue tante applicazioni. E quindi dell'eredità digitale una volta che non ci siamo più.

Temi già toccati per ciò che riguarda le nostre pagine personali sui social network, ma mai per i contenuti del nostro telefonino, ovvero l'apparecchio più insostituibile della nostra esistenza diventato anche il gestore delle tante informazioni che raccogliamo giorno per giorno.

Perché Apple non ha voluto fornire il supporto necessario alla famiglia per fornire l'identità digitale del figlio e permettere di accedere ai dati? Prima della causa la società ha chiesto alla famiglia una serie di adempimenti impossibili da ottemperare, anche ai sensi dell'«Electronic Communications Privacy Act», la norma americana che regola la privacy dei dati digitali e che si pretendeva fosse adottata anche in Italia. Paletti che di fatto avrebbero reso impossibile o fin troppo oneroso recuperare i contenuti del telefonino del ragazzo morto e che solo l'intervento del giudice italiano ha sbloccato.

Apple, ad esempio, pretendeva una dichiarazione del tribunale che specificasse «che il defunto è il proprietario di tutti gli account associati all’ID della società californiana», o che il «richiedente è l’amministratore o il rappresentante legale del patrimonio del defunto» fino ad intimare che non si sarebbe comunque attivata senza un ordine del tribunale stesso, perché i dati « potrebbero contenere anche informazioni o dati personali identificabili di terzi».

Tutte queste richieste sono state smontate dal giudice che ha stabilito come «del tutto illegittima la pretesa avanzata dalla società resistente di subordinare l’esercizio di un diritto, riconosciuto dall’ordinamento giuridico italiano, alla previsione di requisiti del tutto estranei alle norme di legge che disciplinano la fattispecie in esame».

Una formula che spazza le pretese di Apple e che, al contrario, valorizza una norma italiana introdotta con un decreto legislativo del 2018 che ha modificato il codice in materia di protezione dei dati oltre la vita, stabilendo che l'accesso a questi ultimi possono essere esercitati «da chi ha un interesse proprio, o agisce a tutela dell'interessato, in qualità di suo mandatario, o per ragioni familiari meritevoli di protezione». E sono state proprio le ragioni familiari «meritevoli» che hanno mosso l'azione del giudice a decidere, fortunatamente, in favore della famiglia.

Questo problema può toccare evidentemente tutti noi, e pensare che l'ottenimento di un diritto come questo passi ogni volta attraverso una causa in tribunale è assurdo. La speranza è che Apple, dopo questa pronuncia, cambi la sua policy in Italia per dare essa stessa assistenza a chi ne ha diritto, con un procedimento semplice e non oneroso.

© Riproduzione riservata