Che la vita imiti l’arte, in Argentina, è cosa evidente anche ai più scettici. Difficile, altrimenti, spiegare le bastonate che i pensionati di Buenos Aires si ostinano a ricevere fuori dal Congresso della Nazione ogni mercoledì pomeriggio, puntualmente pestati da tecnocelerini in tenuta antisommossa, mentre reclamano pensioni più umane.

Una scena indigesta, alla quale si può tuttavia dare un senso leggendo il Diario della Guerra al Maiale, novelita distopica di Adolfo Bioy Casares in cui quegli stessi vecchi – lenti, egoisti e inutili – sono attaccati da bande di giovani forti, atletici e decerebrati. Una guerra che in fin dei conti riguarda tutti noi, perché condotta contro un nemico comune e perverso: l’inesorabile passare del tempo.

Una battaglia dal finale già scritto, quella tra il vecchio e il nuovo che avanza, un po’ come in quel western di Sam Peckinpah dove lo sceriffo sente che si fa troppo buio per vedere e gli sembra di bussare alle porte del paradiso.

A volte onirica come un romanzo di Bioy Casares, più spesso violenta come le trame di Peckinpah, l’Argentina di oggi ci ricorda che c’è modo e modo di morire: con una pensione di 300 dollari scarsi, obbligati a scegliere tra pranzo, cena o medicine, il mucchio selvaggio dei pensionati di Buenos Aires ha deciso di andarsene con las botas puestas, «indossando gli stivali», come dicono qua, affrontando poliziotti che potrebbero essere loro figli, o nipoti, che se la ridono dietro i caschi prima di «gasarli» a bruciapelo con cartucce di spray urticante importate, che costano ognuna quanto un mese della loro pensione.

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Viejos meados

Sarà la testardaggine, l’eccesso di tempo libero o la demenza senile che accompagna la terza età, ma da mesi, ormai, la casta dei viejos meados – «i vecchi pisciati», come li chiamò in campagna elettorale Javier Milei, disgustando la sua ex rivale e oggi ministra Patricia Bullrich – contesta il veto presidenziale che nega l’adeguamento delle loro già misere pensioni alla svalutazione del primo anno di governo libertario.  Una misura che fa di loro, e dei malati di cancro, hiv e altre patologie complesse, una rognosa metastasi statale da amputare con la motosega, attrezzo di cui anche la nostra presidenta ora possiede un modellino.

Sebbene la marcia dei pensionati del mercoledì sia diventata un classico dei pomeriggi portegni, la contenuta affluenza di manifestanti in grado di reggersi in piedi, unita alla sospetta assenza di morti sul campo – nonostante l’ineccepibile violenza degli uniformati – hanno prodotto una generale normalizzazione del turno infrasettimanale di repressione, convertito in routine, come un qualsiasi mercoledì di coppa.

Questo, almeno, finchè alla marcia del 15 gennaio il cronista Mario Sadras di Radio Grafica, storica emittente nata nel 2005 dall’impresa recuperata Grafica Patricios, intervista un signore di 75 anni che vede manifestare ogni settimana davanti al palazzo del Congresso. Si chiama Carlos Dawloski e ha lavorato per 30 anni come postino.

Al collo, come fosse un mantello, ha una bandiera argentina, e addosso una camiseta rossobianconera del Club Atlético Chacarita Juniors, fondato il 1° maggio 1906 da militanti socialisti nei pressi del cimitero della Chacarita e per questo detto il Funebrero. Lo stesso in cui a metà anni ’80 un giovane e introverso Javier Milei proverà a volare tra i pali con la sua criniera al vento.

Dopo aver notato in tv la camiseta del signor Carlos resistere a lacrimogeni e manganelli, un collettivo di tifosi del Chacarita decide di partecipare al presidio dei pensionati. Una movida che Carlos, estraneo al passaparola dei social, scopre direttamente sul posto lo scorso 5 marzo, quando a prenderle dagli sbirri della Polizia Federale, per la prima volta, ci sono anche una ventina di hinchas autoconvocati.

Né loro, né Carlos, immaginano le conseguenze che le poche parole consegnate ai microfoni avranno sugli eventi futuri: «picchiare dei vecchi è la cosa più codarda che si possa fare. Che vengano anche gli altri tifosi degli altri club, che non siano cagones».

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El Diego de la gente

È qui che l’orizzonte si fa, come dire, più ampio. E non solo per gli attori coinvolti, ma per le parole usate, e per la voce con cui tali parole attraversano le coscienze di buona parte della società argentina. Il 14 ottobre 1992 Diego Armando Maradona è a Buenos Aires per giocare l’amichevole Boca Juniors-Siviglia. Nella notte è morto il telecronista José Maria Muñoz, storica voce del Mundial ‘78, che due giorni prima, dal letto d’ospedale, ha commentato il suo ultimo Boca-River per Radio Rivadavia.

Per raggiungere la camera ardente del gordo Muñoz, al Circolo dei Giornalisti Sportivi della calle Rodriguez Peña, quel mercoledì pomeriggio Diego deve attraversare Plaza Lavalle: da un lato il Teatro Colón, dall’altro il Tribunale dove la giudice Amelia Barraz de Vidal lo ha convocato per la causa/show dell’anno prima, una retata di telecamere e polizia nel quartiere portegno di Caballito.

Nel mezzo, il presidio dei pensionati che protestano contro il governo di Carlos Menem, «il miglior presidente degli ultimi 40 anni» secondo Milei. In quei giorni ha bloccato la legge che dovrebbe destinare i ricavi della privatizzazione del petrolio argentino YPF all’aumento delle loro pensioni.

Accompagnato dal suocero Coco Villafañe, Diego deve camminare cinque cuadras, cinque minuti a piedi per chiunque di noi, un inferno di microfoni nella sua vita quotidiana. Nella mischia una mano gli ruba il cappellino che lo ripara da sole e obiettivi, mentre qualcuno lo accusa di fregarsene dei pensionati. Lui esplode: «Ma guarda te se non sto dalla parte dei pensionati? Dobbiamo essere muy cagones per non difendere i pensionati. Io sto a muerte con i pensionati, perché quello che gli stanno facendo è una vergogna».

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Hay que ser muy cagones para no defender a los jubilados. Eccola qua la frase con cui gli hinchas argentini di tutte le serie e i collettivi antifascisti di tutte le curve si sono autoconvocati alla marcia dei pensionati del mercoledì, occupando uno spazio per troppo tempo lasciato vuoto dai sindacati più importanti, in particolare la pachidermica Central General del Trabajo (CGT), così grande e poderosa che alle volte fatica a muoversi.

Sulla strada per la manifestazione è impossibile non pensare al miracolo compiuto dal governo Milei: far viaggiare insieme su treni, autobus o in metropolitana, camisetas di solito incompatibili, da quelle delle divisioni inferiori come Chacarita, Nueva Chicago, Tigre, Atlanta, All Boys, Deportivo Morón e Laferrere, a quelle di serie A come Racing, Independiente, San Lorenzo, Huracán, Gimnasia, Estudiantes, Boca, River, Argentinos Juniors e finanche Rosario Central e Newell’s.

Tifosi con maglie diverse che si cercano con lo sguardo, non per provocarsi ma per riconoscersi, per essere sicuri di andare insieme nella stessa direzione e non rischiare di rimanere soli di fronte a una repressione che si annuncia ridicolamente violenta e spropositata. Nulla di più spontaneamente argentino, a pensarci bene, un perfetto esempio di cosa continui a significare a livello di coscienza sociale e identità popolare l’istituzione del club, inteso come centro di aggregazione e appartenenza, nucleo di tradizioni familiari e memoria politica.

Un aspetto forse ancora non troppo chiaro a chi afferma che lo sbarco delle Società Anonime Sportive (SAD) sia solo questione di tempo. Di fronte a questa inattesa unità, allora, è interessante notare, se non l’assenza, almeno l’innegabile inferiorità di camisetas albicelesti della Selección nazionale, uno dei pochi elementi di solito in grado di mettere tutti d’accordo, stavolta indossato per lo più da bambini tenuti per mano dai genitori. Uno di loro ha un cartello azzurro che dice: Yo soy hincha de la Selección. Ojalá la Selección fuera hincha de Argentina. «Io sono tifoso della Nazionale. Magari la Nazionale facesse il tifo per l’Argentina». E qui la mancanza di Diego si sente un po’ di più.

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