Nel dicembre del 1938, con la scoperta della fissione dell’uranio e del torio, nasce nei beaker di Otto Hahn al Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften di Berlino, l’istituto Max Planck di oggi, l’èra atomica.

Nel febbraio del 1939 Leo Szilard, che nel 1933 già pensava a una catena di reazioni nucleari per un reattore, concepisce grazie alla scoperta di Hahn la possibilità di una bomba di straordinaria potenza. A settembre 1939 Szilard, con Eugene Wigner ed Edward Teller, l’ideatore della bomba H e l’unico con la patente, tutti ungheresi, vanno a trovare Albert Einstein, che era in vacanza sulla costa del New Jersey: era già chiaro di cosa preoccuparsi, di cosa aver paura.

Szilard conosceva bene Einstein dagli anni di Berlino, avevano brevettato insieme un nuovo tipo di frigorifero. Ma questa volta avevano avuto un’altra idea, quella di un dispositivo per far saltar in aria una città intera in un sol botto. Scrivono una lettera al presidente Roosevelt e per circa due anni non succede quasi nulla.

Non è difficile immaginare i tre ungheresi a Washington che, con un forte accento straniero, cercano di convincere il Comitato dell’Uranio: un generale, un ammiraglio, alcuni anziani consulenti scientifici del governo. «We canna makea a littlea bomba and it will blow uppa a whola city». Come si faceva a crederci? Ma nell’agosto del 1945, sei anni dopo, l’energia nucleare aveva cambiato il mondo, aveva rapidamente concluso una guerra mondiale e prodotto un’industria delle dimensioni di quella dell’automobile.

Dopo la guerra Otto Hahn diventerà un fervente oppositore dell’uso dell’energia atomica per scopi militari. Già prima di Hiroshima Szilard, uno delle menti più brillanti dell’epoca, viene estromesso da qualsiasi cosa di governativo avesse a che fare col nucleare, si dedica alla biologia a tempo pieno e nel 1962 fonda il Council for a livable world, un’organizzazione dedicata all’eliminazione degli arsenali nucleari.

In un articolo del 1947 per l’Atlantic Einstein dichiarava che solo le Nazioni unite dovessero avere a disposizione armi atomiche e solo come deterrente a nuove guerre.

Perché rievocare questi episodi? Perché la stessa situazione si sta ripresentando ora con la fusione nucleare.

Il concetto di fusione

Tutti ormai sanno cos’è la fusione, ne ha parlato anche il presidente del Consiglio a un recente question time della camera. Si sa che si può produrre energia non solo spaccando l’uranio in due ma anche fondendo atomi leggeri. Tutti lo sanno perché ci hanno insegnato che così fa anche il sole. In realtà non è vero ma è quel che ripete alla noia chi ne ha solo una conoscenza superficiale, come il nostro ministro per la Transizione ecologica Roberto Cingolani.

Se alle temperature adatte si potesse formare rapidamente un atomo di elio da due atomi di idrogeno, la nostra stella, fatta di idrogeno, sarebbe già esplosa miliardi di anni fa con un botto cosmico. Invece la fusione dell’idrogeno coinvolge una reazione “debole” che è così lenta, così improbabile, che anche nelle condizioni straordinarie del nucleo del sole la densità d’energia prodotta dalla reazione sarebbe quella di un mucchio di letame, di quelli che si vedono fumare d’inverno nei campi.

Sembra incredibile ma il sole, col suo milione di chilometri di diametro, deve brillare a temperature doppie di quelle del filamento di una lampadina accesa per irradiare tutta l’energia che produce al suo interno.

Volendo fare qualcosa di utile sulla terra non si può usare l’idrogeno ma due suoi isotopi rari, deuterio e trizio, non a caso gli ingredienti delle bombe H. Naturalmente chi promuove la fusione a scopo pacifico non menziona la madre di tutte le bombe, ma è proprio qui che voglio arrivare, alle analogie fra la fusione con quel che è successo con le armi nucleari degli anni Quaranta.

Uso pacifico?

Rileggendo le testimonianze degli scienziati che lavoravano in quegli anni si scopre che quel che li motivava di più era lo sviluppo di una fonte d’energia a uso pacifico, un’energia too cheap to meter, troppo economica per farla pagare. Argomenti simili si leggono ora nelle dichiarazioni di Claudio Descalzi, ad di Eni, al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir) nell’audizione del 9 dicembre scorso: la fusione consentirà all’umanità di disporre di grandi quantità di energia virtualmente inesauribile prodotta in modo pulito e sicuro.

Vane speranze perché, a proposito di “inesauribile”, la maggior parte delle previsioni teoriche – dato che di esperimenti non ce ne sono ancora stati – prevede che la fusione non riuscirà ad auto fertilizzarsi. A proposito di “pulita” anche Paola Batistoni, responsabile della divisione sviluppo dell’energia da fusione dell’Enea, attribuisce a un reattore esaurito centinaia di migliaia di tonnellate di materiali inavvicinabili da esseri umani per centinaia di anni con conseguenze sulla convenienza del chilowattora facili da immaginare.

La sicurezza di cui vorrei parlare è però quella militare, la più ignorata, anche dal Copasir. Ci sono molte ragioni per preoccuparsi della fusione nucleare: l’enorme quantità di energia magnetica del reattore può essere responsabile di un’esplosione equivalente a centinaia di chilogrammi di tritolo con conseguente rilascio di trizio, un gas fortemente radioattivo e difficile da contenere. Come già si fa con la fissione, i neutroni della fusione possono essere impiegati anche per produrre il combustibile delle bombe tradizionali, ma i rischi che mi sembrano più preoccupanti sul lungo periodo sono quelli delle armi esclusivamente a fusione, armi nuove, mai viste prima.

Le armi

Per comprendere meglio è utile ripassare il funzionamento delle bombe termonucleari, cioè a fusione, di settant’anni fa. I dettagli non sono di dominio pubblico ma Wikipedia le descrive con sufficiente precisione. Per un’introduzione più completa raccomando i leggibilissimi libri di Richard Rhodes.

Le bombe H sono un esempio di fusione inerziale, Inertial confinement fusion, Icf, dove tutto succede così rapidamente che l’energia delle reazioni si produce prima che la materia che dà loro origine si disperda, una caratteristica degli esplosivi in generale.

Il New York Times ha recentemente annunciato al Lawrence livermore national lab progressi nel campo della fusione inerziale senza innesco a fissione, con un articolo che riporta gli importanti risultati del Nif, la National ignition facility.

Cos’è successo veramente: i 192 laser più potenti del mondo, illuminando contemporaneamente le pareti interne di una capsula d’oro di qualche centimetro, le vaporizzano portandole a milioni di gradi. I raggi X emessi da questo plasma d’oro riscaldano a loro volta la superficie di una pallina di circa 3 mm di diametro contenente il combustibile della fusione che, implodendo, raggiunge l’ignizione. Per ignizione in questo caso si intende che le reazioni di fusione si auto sostengono una volta innescate.

Come descritto nell’articolo, si tratta di aver realizzato un’esplosione termonucleare della potenza di pochi chilogrammi di tritolo senza ricorrere all’innesco di una bomba atomica; con la luce laser al posto della bomba A, il prototipo di tutte le bombe H. L’idea è quella di Teller e Ulam, illustrata in figura.

Non dobbiamo ancora preoccuparci troppo, il Nif per funzionare necessita di un impianto grande come tre campi da football, quindi non si può ancora lanciare la bomba con un razzo, o farla cadere dalla pancia di un aereo, ma la sua miniaturizzazione è plausibile.

Nella fusione, militare e civile, le particelle devono urtarsi con un’energia di almeno 10 keV, 10mila elettronvolt, i 100 milioni di gradi che si leggono dappertutto parlando di fusione.

Dei due ingredienti necessari il deuterio è abbondante, stabile, e il suo approvvigionamento non è difficile. Diversamente il trizio non è presente in natura, ha una vita media di dieci anni, e finora l’hanno prodotto in piccole quantità solo alcuni reattori a fissione. Le scorte note al mondo sono di circa cinquanta chilogrammi, a malapena sufficienti per gli esperimenti scientifici, ed è mille volte più caro dell’oro.

Le bombe H hanno risolto l’approvvigionamento del trizio trasmutando il litio 6, il combustibile della fusione nella figura, irradiato dalla bomba A durante l’esplosione. Come ricordato all’inizio, nella fusione civile la possibilità di fare la stessa cosa una volta innescate le reazioni è tutt’altro che scontata. È uno dei risultati più attesi di “Iter”, un gigantesco Tokamak, al momento la più promettente incarnazione di fusione a confinamento magnetico, in costruzione nel sud della Francia con i soldi di tutto il mondo.

Si trova in Europa perché il promotore principale è la comunità europea; i russi, che l’hanno inventato, e gli americani, con la maggior esperienza nel campo, non hanno più programmi autonomi, sono partner scettici contribuendo a Iter meno dell’Italia.

L’esperimento di fusione inerziale Nif di Livermore è invece finanziato dal Pentagono con circa dieci miliardi di dollari, l’unico, e il più costoso, investimento nella fusione che abbia mai raggiunto l’ignizione.

Sulla falsariga del Nif esiste anche un programma francese, un altro paese armato nuclearmente. Il Cea (Commissariat à l’energie atomique, Direction des application militaires), finanzia vicino a Bordeaux con tre miliardi di dollari il Laser Mégajoule (Lmj), operativo dall’ottobre 2014. Investimenti di questo livello dimostrano quanto i militari siano interessati alla fusione senza fissione e sono gli unici che hanno raggiunto l’autosostentamento delle reazioni nei loro esperimenti.

Nel campo privato

In campo privato First light fusion è una compagnia inglese che ha già investito decine di milioni di dollari in un progetto per realizzare la fusione inerziale, in linea di principio a scopo pacifico, basandosi sull’impatto di un proiettile delle dimensioni di una palla da tennis su un bersaglio solido di deuterio. I risultati sperimentali consistono, per ora, in una manciata di neutroni. Praticamene nulla sul piano energetico, ma quel che è interessante è che la loro energia, 2.45 MeV, sembra corrispondere a eventi di fusione di deuterio, il materiale del loro bersaglio.

Cito First light fusion per indicare come ci sia interesse per la fusione inerziale anche nelle imprese private al di fuori dei laboratori nazionali dediti alle armi, e non è l’unica.

Marvel fusion, con base in Baviera, è un’altra impresa privata che dichiara di voler raggiungere l’ignizione con uno schema inerziale.

A chi si chiedesse se l’enorme divario di densità del combustibile che separa con dodici ordini di grandezza l’Icf, più denso di un corpo solido, e quello del confinamento magnetico dei Tokamak, rarefatto come un buon vuoto di laboratorio, possa nascondere metodi alternativi per realizzare la fusione, la risposta è senz’altro positiva. Prima dell’avvento della “fusione degli imprenditori”, nessuna proposta a densità intermedia, sia a scopo pacifico che militare, era sembrata abbastanza attraente. Il panorama potrebbe cambiare ora: la proposta di Generalfusion, quella di Besos per intenderci, è di questo tipo, cioè a impulsi e a densità intermedia. C’è da chiedersi se l’ad di Amazon sia al corrente di sponsorizzare ricerca con possibili implicazioni militari.

Sperimentazioni

L’idea di innescare la fusione in un bersaglio di deuterio trizio concentrando radiazione laser, o esplosivi convenzionali, ha affascinato a lungo sia coloro che la vedono come una fonte di energia potenzialmente illimitata sia chi la considera un’arma efficace e devastante. Ai laboratori nazionali di Frascati del Cnen, Comitato nazionale energia nucleare, ora Enea, Energia nucleare ed energie alternative, troviamo esempi di sperimentazioni di entrambi i tipi negli anni Settanta, come riportato in 50 anni di ricerca sulla fusione in italia a cura di Paola Batistoni.

Secondo alcuni l’idea di innescare la fusione con esplosivi convenzionali, come negli esperimenti Mafin e Mirapi di Frascati è stata considerata seriamente dagli scienziati russi nel campo delle armi all’inizio degli anni Cinquanta e perseguita vigorosamente presso il laboratorio Lawrence livermore nell’ambito di un programma ironicamente intitolato “Dove”, in inglese “colomba”, durante la moratoria dei test nucleari nel periodo 1958-1961.

Secondo Sam Cohen, che ha lavorato al progetto Manhattan delle prime bombe a fissione, Dove ha fallito nel suo obiettivo di sviluppare una bomba al neutrone «per ragioni tecniche, che non sono ancora libero di discutere». Ma Ray Kidder, ex Lawrence livermore, afferma che gli Stati Uniti hanno perso interesse per il programma Dove quando sono ripresi i test perché «era molto più semplice innescare con la fissione».

Ma non finisce tutto qui, a proposito di fusione militare è istruttivo rileggere ora un articolo apparso sul NYT nel 1988, che descrive un esperimento nucleare “sporco” realizzato segretamente allo scopo di verificare i parametri della fusione inerziale come quello realizzato ora al Nif riportato sopra. Oltre a mostrare l’inequivocabile interesse militare di queste imprese, l’articolo dà un’idea anche della complessità e gradualità del loro sviluppo, iniziative degli anni Ottanta che danno i loro frutti solo ora.

Gli ordigni nucleari moderni sono “boosted”, cioè utilizzano la fusione per potenziarli, ridurne il costo e miniaturizzarla ma il grosso della potenza esplosiva origina dal materiale fissile che le circonda e non dalla fusione. Esistono però anche ordigni dove l’energia ha origine quasi esclusivamente dalle reazioni di fusione come la madre di tutte le bombe, la russa Tzar Bomba. Con i suoi 50 megatoni è una H a molti stadi, l’aggiunta di un tamper di materiale fissile l’avrebbe potenziata a dismisura ma si è preferito mantenerla “pulita”.

È importante sottolineare che la componente H di un ordigno termonucleare, a differenza dell’esplosivo fissile, contribuisce poco alla radioattività ambientale di medio lungo periodo. Svelare i segreti dell’Icf potrebbe indicare come annientare militarmente l’avversario limitando i danni permanenti all’ambiente. È la stessa ragione per la quale si sostiene che la fusione a scopo pacifico sia più attraente della fissione: i prodotti finali inevitabili, per lo più elio, sono molto meno radioattivi degli elementi pesanti caratteristici delle ceneri della fissione. La radioattività delle reazioni inficia la fusione civile per altri motivi: riduce la già precaria affidabilità del reattore aumentando enormemente il costo del chilowattora.

A che punto siamo

Torniamo alla Icf. L’esperimento Nif del Lawrence livermore national lab è stato finanziato dal Department of defence, per continuare la ricerca su nuove armi senza violare il Comprehensive nuclear-test-ban treaty (Ctbt), un trattato internazionale che impone un limite superiore alla potenza di un ordigno nucleare sperimentale. L’Icf permette di approfondire la ricerca sulle bombe H ottemperando agli impegni internazionali.

Nonostante la retorica degli annunci sui giornali, la rilevanza per la produzione di energia dell’Icf è minima per molte ragioni: prima di tutto nel caso di Nif l’energia primaria, l’alimentazione da rete di tutti i dispositivi, è centinaia di volte superiore rispetto all’energia termica prodotta, il bilancio energetico riportato si riferisce alla sola energia della luce laser. Ancora più importante è che il ritmo di ripetizione delle micro esplosioni e l’affidabilità necessari a produrre la potenza tipica di una centrale elettrica rappresentano ostacoli che sembrano a tutt’oggi insormontabili.

La preoccupazione a proposito delle armi a fusione pura è invece attuale, con la fusione si sta ripresentando una situazione analoga a quella che era apparsa chiara a molti degli scienziati che hanno partecipato allo sviluppo delle armi ai tempi di Hiroshima e Nagasaki: l’energia nucleare è spaventosamente pericolosa anche se potenzialmente utile sia per produrre energia a scopo pacifico sia come deterrente per le guerre tradizionali.

Questa volta, con la fusione, il rapporto fra i due impieghi è però così sfavorevole da rendere difficile giustificarne lo sviluppo: le armi a fusione, ora più vicine a noi delle corrispondenti applicazioni pacifiche, sono sempre più devastanti, interessando potenze sia superiori sia inferiori, alle armi tradizionali a fissione. Gli ordigni termonucleari di piccola potenza non avrebbero carattere dissuasivo rimanendo molto distruttivi e quelli di grandissima potenza, centinaia e migliaia di megatoni, avrebbero conseguenze a livello planetario così catastrofiche che nessuno ne vuol parlare. D’altra parte l’applicazione pacifica, la produzione elettrica, sembra molto più improbabile ed economicamente meno attraente, della già poco invitante fissione.

La rivoluzione eolica e fotovoltaica, che sta rendendo obsoleta la fissione nucleare nonostante l’urgenza della de-carbonizzazione, rende la fusione civile poco attraente prima ancora che ne sia stato dimostrato il funzionamento e le potenziali applicazioni militari dovrebbero scoraggiare qualsiasi tentativo di approfondire gli aspetti scientifici di questa tecnologia.

Scelta collettiva

È possibile arrestare questi sviluppi o la “scienza” è inarrestabile? Per ora sembra di sì. La scienza della fusione è nata interrogandosi sull’origine dell’energia delle stelle, cioè in astrofisica, e non sembra avere altre applicazioni, né presentare interesse speculativo. Non è una frontiera paragonabile allo studio delle alte energie, come nella fisica che si studia negli acceleratori di particelle, è più simile a una “chimica nucleare” con potenziali applicazioni aberranti, da indagare in stretto isolamento.

Per ora quelle della fusione sono tecnologie economicamente molto impegnative, non sviluppabili in un garage di casa. Il loro avanzamento dipende ancora da una nostra scelta collettiva, come successo con la bomba atomica, ma siamo già a un grado di sviluppo più avanzato di quando Szilard aveva coinvolto Einstein per arrivare a Roosevelt. Il genio è in procinto di uscire dalla lampada.

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