Mentre scorrono queste righe, nella calura appiccicosa di Melbourne Matteo Berrettini starà provando a scrollarsi dai polpacci le zanne di quel fenomenale pitbull di nome Rafa Nadal, un campione assoluto di resistenze e rinascite sportive, e lo farà a suon di bordate di servizio e dritto nella semifinale di un Open d’Australia del quale resterà memoria anche per la storiaccia del visto, concesso e poi negato dal governo federale, al fieramente non vaccinato numero uno del mondo Novak Djokovic.

Ma non c’è bisogno di fermare rotative: ce la faccia o meno - e come non augurarsi un’altra impresa - reggerebbe l’urto della sconfitta una considerazione più che ragionevole ma, per qualche motivo, poco esplorata nel chiacchiericcio sportivo. Che si ritrova curiosamente incastrato in un impasse temporale tra il passato del tennis e il suo futuro prossimo, appoggiato sulle spalle del prodigio Jannik Sinner, eliminato nei quarti di finale australiani l’altro giorno per mano del campione greco Stefanos Tsitsipas.

Certo: è legittimo che Sinner, a vent’anni, già classificato tra i primi dieci tennisti del pianeta a dispetto di un tennis mondiale tanto muscolare da aver escluso salvo eccezioni (si chiamano Alcaraz, Auger Aliassime) i giovanissimi dalla competizione, sia sulla bocca di tutti, tifosi, giornalisti, aziende. Che lo hanno ricoperto di munifiche sponsorizzazioni: non solo abbigliamento e attrezzatura ma il formaggio di Parma e Reggio più noto al mondo, l’automobile tricolore del Biscione, gli attrezzi griffati da palestra, il caffè che più lo mandi giù e più ti tira su, la fibra ultraveloce per navigare in Rete, pure la banca nata dalla confraternita torinese dei Paolini.

L’avvicendamento generazionale in atto, con Federer impegnato a decidere il finale del suo strepitoso film, Nadal avviato ai trentasei anni di vita e con centinaia di migliaia di chilometri alle spalle, Djokovic di un solo anno meno anziano, spalanca praterie di possibilità ai nuovi arrivati dopo un ventennio di triumvirato della racchetta: i tre alieni hanno vinto sessanta titoli dello Slam e, per quanto la concorrenza di Medvedev, Zverev e Rublev sia agguerrita, non è pensabile che stia per ripetersi un’altra era di despoti come mai si erano visti nella storia della disciplina.

Prendi testa o croce?

©lapresse archivio storico sport tennis anni '70 Coppa Davis nella foto: Adriano Panatta e Paolo Bertolucci durante una partita di Coppa Davis BUSTA 3131

In Italia, se si ragiona su quale sia mai stato il più grande tennista nostrano maschio, la discussione è inchiodata con lo sguardo dietro le spalle. Solo due nomi è lecito fare, Nicola Pietrangeli e Adriano Panatta. Il primo, un talentuoso e pigro interprete di un tennis, quello degli anni Sessanta, in cui la manualità sbaragliava il fisico. Non avendo troppa voglia di allenarsi né di faticare, si faceva bastare qualche partitella e la pratica del gioco durante i match ufficiali.

Titolare di un fascino indubbio, amante della bella vita e degli agi, Pietrangeli mise le mani su due titoli dello Slam, le edizioni 1959 e 1960 del Roland Garros. E giocò, perdendola al quinto set, una delle più avvincenti sfide dell’epoca, la semifinale di Wimbledon 1960 contro Rod Laver, l’unico uomo a completare per due stagioni la collezione dei quattro Slam. Non sussiste alcun dubbio sul valore di Pietrangeli.

Semmai, quantificarlo è tosto. Per due motivi. Ai tempi, non esistevano classifiche legate ai risultati ma ranking di merito (e lui arrivò alla terza posizione) compilati, un po’ come l’attuale Pallone d’oro nel calcio, da giornalisti. Soprattutto, il tennis non permetteva ai giocatori di ricevere premi in denaro, ma solo rimborsi. Sicché un manipolo di fuoriclasse, tra cui lo stesso Laver, avevano rinunciato per buona parte degli anni Sessanta ai tornei istituzionali, perché messi sotto contratto da società americane per esibirsi in ricche partite che non contavano nulla, salvo per il direttore di banca.

L’altro nome è quello di Adriano Panatta, ex numero quattro del mondo. Il meraviglioso tris del 1976 con i trionfi a Roma, al Roland Garros e nella finale di Coppa Davis a Santiago del Cile hanno fatto, del re degli Internazionali, l’unico contendente ammesso alla disputa. A differenza di Pietrangeli, che la tirò per le lunghe fin dopo i quarant’anni, Panatta era troppo uomo di mondo per passare anni su anni «in mutande, a tirare colpi a una palla», come tuttora ama dire ogni volta in cui i campioni del tennis vengono – vedi caso Djokovic – additati a modelli di riferimento per la società.

Adriano, padrone di un tennis spettacolare e di un carisma tentacolare, non ebbe le stesse facilitazioni del suo rivale. Giocò nell’era Open, cioè dell’apertura del tennis ai professionisti. Che è quella tuttora vigente, ma con qualche differenza non da poco. Su tutte, il fatto che il valore dei tornei non fosse lo stesso che viene attribuito oggi. Gli Australian Open erano formalmente uno dei quattro Slam, sostanzialmente no. Bjorn Borg non li frequentava, per esempio. Panatta si fece vedere una volta, nel 1969, perse al primo turno e salutò il torneo per sempre: troppo lontano, troppo scomodo, trasferta dispendiosa. Ci avesse riprovato, chissà.

Tertium datur?

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Eppure, in questa divisione in cui non si dà la possibilità dell’ingresso di un terzo, in attesa di candidare ufficialmente Jannik Sinner, a ben vedere un terzo c’è già. Anche lui è di Roma. Anche lui tira forte il servizio. Magari a rete non gli riescono i virtuosismi dei suoi due avi sportivi ma, con il dritto, pare armato di un pezzo da contraerea. È il primo giocatore italiano di sempre a raggiungere la semifinale australiana – se vincerà diventerà quinto in classifica, altrimenti sesto.

Un risultato clamoroso, che ne porta con sé un altro: nessun giocatore italiano prima di lui era riuscito a qualificarsi per la semifinale in tre differenti appuntamenti del tennis di élite. Ce l’aveva già fatta nel 2019 a New York, quando la sua corsa tra risate e mazzate – perché Berrettini è così, violento con la palla e gentile col mondo – venne fermata da Nadal. A Wimbledon 2021, nella domenica della finale europea di calcio, era diventato il primo italiano di sempre a giocarsi il trofeo più famoso del globo, ahinoi ceduto a Djokovic. E la costanza dei suoi risultati di eccellenza nelle ultime tre stagioni gli ha fatto dono di un altro primato: mai nessun italiano aveva preso residenza più a lungo tra i primi dieci giocatori in classifica. Difatti, per due volte si è qualificato al Master finale, ora di stanza a Torino, e anche questo è un record per il nostro Paese.

Forse, allora, non c’è più bisogno di restringere la scelta tra la virtù indolente di uno e il «pof pof» suadente dell’altro. Tra un ex atleta, ora arzillo paranovantenne, che si è vantato per una vita di non aver lavorato un giorno della sua vita e un altro che, tra Parigi e Wimbledon, preferiva farsi una settimana in Costa Smeralda, «e saranno stati cavoli miei», come romanamente rispondeva a quelli che ne stigmatizzavano la preparazione.

Nel tennis ipertrofico e del professionismo esasperato, c’è un tale livello di antagonismo che non basta essere dotati, né trattare la palla con mano fatata, né farsi forza di fiducia in sé stessi. Ed è sicuro che Jannik Sinner scalerà un gran numero di vette sopra gli ottomila. Lo farà.

Intanto, però, Matteo Berrettini ha fatto e fa quanto basta per sparigliare le carte e proporre un’altra prospettiva, tra ciò che è stato e quello che arriverà. C’è un altro candidato al titolo di migliore italiano di sempre.

Un ragazzo che si è trovato e tenuto la fidanzata (non influencer!) e non finisce mai sulle versioni moderne dei vecchi rotocalchi. E che, ogni volta in cui un infortunio lo prende a sberle, si scrolla di dosso la frustrazione e recupera il terreno perduto. Non scala le tribune per un testa e testa con gli spettatori più beceri, come Panatta a Barcellona ’77 in Coppa Davis. Anzi: dopo la partita contro Monfils, a Melbourne, un ultras francese alticcio lo ha carinamente mandato a quel paese, durante l’intervista in mondovisione.

Lui si è aperto in uno dei suoi sorrisi e, dopo quasi quattro ore di lacrime e sangue sul campo, l’ha messa così: «Alcuni, qui, non sono veri appassionati di tennis, ma non si può controllare tutto. Il rispetto è qualcosa che bisognerebbe avere ma va bene così: ho vinto, e sono felice». E noi con lui.

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