Un mercato dei trasferimenti da paese calcisticamente marginale. Con un passato di gloria ormai remoto almeno quanto un futuro di ripresa. Con un presente di mediocrità trasformata in comfort zone. E col Covid che, potete scommetterci, farà da alibi almeno per un lustro quando invece le altre leghe europee di prima e seconda fascia (cioè la linea di confine lungo la quale oscilla la nostra Serie A) hanno già mostrato segni di ripresa perché meglio hanno saputo parare l’emergenza.

Si è chiusa mestamente nella serata di martedì 31 agosto la finestra estiva del calciomercato 2021. E il suo bilancio andrebbe scritto con inchiostro grigio. Poco denaro in circolazione, un fitto intreccio di scambi e prestiti, e gli ultimi pezzi di argenteria alienati come se fosse la stagione dei saldi. Una condizione che vista dall'esterno risulterebbe umiliante. E invece, da dentro la bolla d’irrealtà in cui la Serie A si è rinserrata, è percepita come la premessa di un rilancio. Che in queste condizioni non avverrà mai.

Gente che va (e gente che torna)

Il campionato di Serie A poteva vantare fino alla scorsa stagione il portiere che al termine degli Europei 2020+1 è stato giudicato miglior giocatore della competizione: Gianluigi Donnarumma. Che però, quando si è visto assegnare il riconoscimento, era già diventato un calciatore del Paris Saint Germain. La società controllata da Qatar Sports Investments lo ha ingaggiato da svincolato, poiché Donnarumma aveva lasciato scadere il contratto che lo legava al Milan fino al 30 giugno 2021. Il più forte portiere in circolazione sul mercato internazionale, con una prospettiva di carriera che potrebbe coprire i prossimi 15 anni, alienato in cambio di 0 euro d’incasso per il calcio italiano.

Basterebbe questa vicenda per dare la misura dello sfascio industriale, dell’incapacità di programmazione, dell’inguaribile presunzione d’essere ancora in cima al mondo che i dirigenti del calcio nazionale alimentano. E invece se ne possono raccontare almeno altre due, giusto per completare il terzetto delle società che assieme al Milan continuano a sentirsi talmente al di sopra del resto del movimento da aver provato la sciagurata avventura della Superlega: Inter e Juventus.

La società nerazzurra difenderà lo scudetto senza il suo calciatore più forte, l’attaccante belga Romelu Lukaku. Ceduto al Chelsea in cambio di 115 milioni (per inciso: il Covid ha picchiato duro anche in Inghilterra, ma evidentemente le conseguenze non sono state uguali). Denaro che è servito per dare ossigeno ai sofferenti conti della società nerazzurra, al pari di quello che è entrato dalla cessione di Achraf Hakimi all’onnipresente Paris Saint Germain. E in attesa di capire fino a quando la società nerazzurra rimarrà sotto la proprietà cinese di Suning, gli strateghi del calciomercato nerazzurro si sono rivolti al mercato interno per compiere il rafforzamento, con una puntata in Olanda per l’operazione-Dumfries.

Quest’ultima porta il timbro del super-agente Mino Raiola, che nell’estate della grande crisi ha rafforzato la propria morsa sul boccheggiante calcio italiano lasciando il segno su tutte e tre le società dell’abortita Superlega. Sua è la regia del trasferimento che ha portato Donnarumma al Paris Saint Germain dopo lo svincolo dal Milan. E suo è anche il ruolo cruciale per il ritorno di Moise Kean alla Juventus dall’Everton, a soltanto due stagioni di distanza dal viaggio inverso. Nell’estate del 2019 il trasferimento a Liverpool del giovane attaccante aveva fruttato un incasso da 27,5 milioni di euro, con plusvalenza da 22 milioni e eventuali bonus per 2,5 milioni. Due anni dopo la società bianconera impegna 7 milioni di euro per il prestito biennale del giocatore e 28 milioni per l’obbligo di riscatto da esercitarsi nel 2022-23, più 3 milioni di eventuali bonus. Dunque, un incasso massimo da 30 milioni di euro si trasforma, nel giro di due anni, in un esborso da possibili 40 milioni di euro. E poi c’è la vicenda di Cristiano Ronaldo.

L’ultimo calciatore di livello mondiale che la Serie A conservasse fra i propri ranghi se n’è andato via in modo persino offensivo. Negli ultimi giorni della finestra di mercato, puntando i piedi dopo aver detto che non avrebbe giocato più in bianconero, e infine congedandosi con un “Grazzie” rivolto ai tifosi bianconeri che sa più di sberleffo che di gratitudine. Quanto basta per far pentire noi di Domani d’avergli chiesto che pronunciasse in italiano le parole d’addio.

L’atteggiamento scelto da CR7 per congedarsi dalla Juventus e dal calcio italiano ha rasentato il disprezzo. Ma al di là dello stile del personaggio, che costituisce novità soltanto per quanti l’hanno raccontato o se lo sono fatto raccontare con timbro da Istituto Luce durante questo magro (tranne che per lui) triennio, c’è da rimarcare le condizioni da straccivendoli con cui la società bianconera si è liberata del portoghese. Il Manchester United lo ha infatti rilevato per una cifra fissa di 15 milioni di euro pagabili in 5 (!) esercizi, più 8 milioni di euro eventuali in bonus a rendimento. La Juventus registra anche una minusvalenza da 14 milioni di euro. E ciò è davvero prodigioso se si pensa che stiamo parlando del calciatore cui soltanto a gennaio scorso, durante un appuntamento annuale a Dubai che sotto l’egida del suo agente Jorge Mendes raduna i potenti del calcio globale, era stato conferito il titolo di “più grande calciatore del secolo”. Con precisazione che il secolo andasse conteggiato soltanto sul ventennio fin qui trascorso.

Per cedere il più grande calciatore del secolo breve la Juventus è riuscita a realizzare una minusvalenza. Tutto, pur di sgravare il bilancio dal peso degli oltre 80 milioni di euro che l’ultima stagione bianconera di CR7 sarebbe costata fra stipendio lordo e ammortamento. Quella follia finanziaria costringe adesso la società bianconera a fare operazioni con pagamenti molto comodi, come quella col Sassuolo per l’ingaggio di Manuel Locatelli. La cui acquisizione verrà pagata a partire da febbraio 2023. Rispetto a siffatta situazione, il presidente bianconero Andrea Agnelli non avverte la minima responsabilità. Del resto, nel tempo più recente, il suo rapporto col principio di realtà deve essere piuttosto sofferto. Continua a vagheggiare la Superlega. Ma intanto perde in casa contro l’Empoli.

Né formatori né reclutatori

Se quella descritta è la situazione delle tre società leader, non molto meglio può andare a tutte le altre. Infatti sono poche quelle che hanno speso in modo rilevante. Certamente la Roma, che punta forte sul carisma di Mourinho ma ha anche fatto investimenti importanti per Abraham, Shomurodov, Rui Patrício e Viña. E si segnala anche l’Atalanta, che oltre a vendere bene (su tutti, Romero al Tottenham) continua a pescare efficacemente all’estero. Il difensore olandese Teun Koopmeiners, proveniente dall’AZ Alkmaar, potrebbe inserirsi in questo solco. Per il resto, poco di incoraggiante. Molti prestiti, anche incrociati. Una febbrile caccia agli svincolati. Abbondanti operazioni sui mercati esteri condotte da società come Spezia e Venezia che molto meglio avrebbero fatto a rivolgersi al mercato interno. E la rivendicazione di mancate cessioni (come quelle di Lautaro Martinez dell’Inter e di Dusan Vlahovic della Fiorentina) come se si trattasse di grandi colpi.

Il panorama che ne sortisce è desolante e dice che il declino della Serie A si avvia a imboccare l’irreversibilità. Perché questo campionato non ha più un’identità. Un tempo era un torneo reclutatore, grazie a una forza economica che i club usavano per acquisire tutto l’acquisibile sui mercati esteri anziché pensare a consolidare e patrimonializzare. E adesso che recluta soltanto esuberi dei campionati principali o quarte-quinte scelte, scopre quanto stia pesando non essere mai stato anche un campionato di formazione (come, per esempio, non hanno mai cessato di esserlo nemmeno Bundesliga, Liga e Ligue 1, giusto per citare le grandi leghe su cui si fa la corsa). Né prova a intraprendere questa nuova strada. Meglio fare incetta di sconosciuti nei campionati dell’est o in quelli nordici. E vivacchiare dentro una dimensione nazionale che ormai è l’unica possibile. La Serie A del provincialismo globale. Il campionato che era stato grande e adesso serve da monito vivente per i ricchi che non vorranno piangere in futuro.

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