Su Domani prosegue il Blog mafie, da un'idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l'associazione cosa vostro vostro. In questa serie, seguiamo gli sviluppi del processo Borsellino quater, dopo la strage di via d'Amelio: uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana.

Il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, all’epoca dei fatti oggetto del presente processo era pienamente inserito nella famiglia mafiosa di Brancaccio (famiglia egemone dell’omonimo mandamento, composto altresì da quelle di Ciaculli, Corso dei Mille e Roccella), sin dagli anni ’80, sebbene non fosse ancora ritualmente affiliato, come uomo d’onore. Infatti, come risulta anche dalle dichiarazioni degli altri collaboratori di giustizia escussi nel presente procedimento, soltanto dopo l’arresto dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano (27 gennaio 1994) e quello di Antonino Mangano (24 giugno 1995), Gaspare Spatuzza diveniva uomo d’onore e veniva, contestualmente, investito (attesi i predetti arresti dei vertici della famiglia) della rappresentanza del mandamento mafioso di Brancaccio, su impulso e per volontà di Matteo Messina Denaro, che voleva un punto di riferimento per quest’ultimo territorio. [...] Comunque, [...], anche in rapporto al suo curriculum criminale ed ai motivi della sua collaborazione con l’autorità giudiziaria, deve subito evidenziarsi come, già all’epoca della strage di via D’Amelio, Gaspare Spatuzza fosse organicamente inserito nella famiglia di Brancaccio e godesse della piena fiducia dei vertici di detto mandamento: infatti, egli entrava a far parte attiva del gruppo mafioso negli anni ’80 grazie al rapporto di conoscenza instaurato con la famiglia dei Graviano, dalla parte dei quali si era schierato nella guerra di mafia poiché, proprio come gli stessi fratelli Graviano, in relazione all’omicidio del loro padre (Michele Graviano), sospettava anch’egli che proprio fratello (Salvatore Spatuzza) fosse stato eliminato da quella fazione di Cosa nostra che faceva capo a Salvatore Contorno e, da quel momento in poi, s’era dunque prestato a controllare gli spostamenti dei familiari e dei soggetti ritenuti vicini allo stesso Contorno (del quale si temeva un ritorno a Palermo, per vendicarsi nei confronti di coloro che riteneva nemici, avvalendosi, appunto, dei familiari o dei soggetti a lui più legati).

[…] Gli incarichi che gli venivano, via via, affidati nell’ambito della famiglia di Brancaccio erano, nel corso del tempo, aumentati per frequenza ed importanza, arrivando (come meglio esposto nella parte dedicata alla valutazione della credibilità soggettiva del collaboratore) anche a numerosi omicidi per conto del sodalizio mafioso (fra gli altri, quelli di Don Pino Puglisi e del piccolo Giuseppe Di Matteo) e, soprattutto, al coinvolgimento diretto nell’intera campagna stragista, in Sicilia (con le stragi di Capaci e di via D’Amelio) e nel continente.

Venendo ai fatti oggetto del presente processo, Gaspare Spatuzza dichiarava, fin dall’avvio (il 26 giugno 2008, avanti a magistrati delle Procure di Caltanissetta, Palermo e Firenze) della propria collaborazione con la giustizia (invero, come rilevato dal Pubblico Ministero, nella sua requisitoria, inizialmente accolta dagli inquirenti con diffidenza, poiché si trattava di rimettere in discussione, dopo più di quindici anni dai fatti, diverse sentenze che accertavano, con il crisma dell’irrevocabilità, responsabilità penali per fatti gravissimi), gli eventi che lo vedevano protagonista, anche in relazione alla strage di via D’Amelio, approfondendo, poi, nel corso dei successivi atti istruttori, il contenuto delle sue dirompenti rivelazioni.

In particolare, per quanto di specifico interesse in questa sede, il collaboratore riferiva che, un giorno (sulla collocazione cronologica, ci si soffermerà nel paragrafo successivo), allorché si trovava in macchina con il sodale Cristofaro (inteso Fifetto) Cannella, che parlava a nome e per conto del loro mandamento, Giuseppe Graviano, questi, dopo essersi sincerato che la vettura fosse “pulita” (cioè che non vi fosse pericolo d’esser intercettati) gli faceva presente che occorreva rubare una Fiat 126. All’obiezione dello Spatuzza, che si diceva non in grado di rubare un simile modello di autovettura, per la quale non si poteva utilizzare lo “spadino”, il Cannella rispondeva, in maniera categorica (“la macchina si deve rubare”): da tale atteggiamento, Gaspare Spatuzza comprendeva che, del tutto verosimilmente, era in preparazione un attentato, facendo un collegamento con quello effettuato in danno del dott. Rocco Chinnici, per il quale era stata utilizzata proprio una Fiat 126, imbottita d’esplosivo. Data l’irremovibilità di Cannella, Spatuzza gli domandava se poteva avvalersi dell’aiuto di Vittorio Tutino ed anche se, per l’esecuzione del furto, dovevano rispettare il limite territoriale del loro mandamento (Brancaccio), oppure se, al contrario, avevano libertà di agire su tutta la città di Palermo. Cannella prendeva tempo, dicendo che simili decisioni spettavano a Giuseppe Graviano, riservandosi di far pervenire una risposta, dopo aver, appunto, interpellato il capo mandamento.

Effettivamente, dopo qualche giorno, Cannella comunicava a Spatuzza che poteva utilizzare Tutino per il furto della Fiat 126 e che potevano operare in tutto il territorio palermitano ed anche oltre. Spatuzza si attivava, dunque, immediatamente, per rintracciare Vittorio Tutino, facendogli presente la necessità di rubare una Fiat 126, munendosi degli arnesi da scasso necessari per asportare quel modello di autovettura, poiché (come anticipato), sapeva (da alcuni soggetti del quartiere Sperone di Palermo, dediti ai furti di autovetture) che non era possibile rubare la Fiat 126 utilizzando il “chiavino” o “spadino”, essendo necessario romperne il bloccasterzo e poi collegare i fili di accensione (la circostanza veniva ampiamente confermata, come si vedrà, nel corso dell’istruttoria). Dunque, nel giorno stabilito (sull’individuazione, ancora una volta, si rinvia al paragrafo successivo), Spatuzza si metteva in moto, assieme a Tutino, a bordo della Renault 5 di proprietà del fratello, in prima serata (dopo le ore venti), per individuare l’autovettura da rubare, in realtà, avendo in animo soltanto di perlustrare la zona e poi, una volta individuata la vettura, di agire in un tempo più idoneo. […] Una volta individuata la Fiat 126, Spatuzza e Tutino decidevano di agire nell’immediatezza, perché l’automobile era posteggiata in una zona isolata e l’occasione era propizia81. Quindi, Vittorio Tutino, munito dell’attrezzatura da scasso (un cacciavite per forzare la serratura ed il “tenaglione” per rompere il bloccasterzo), scendeva e si metteva in azione, mentre Spatuzza rimaneva a bordo dell’automobile del fratello, posizionandola all’imbocco della stradina e rimanendo in attesa. Tuttavia, vedendo che il compare impiegava più tempo del dovuto, Spatuzza usciva dall’abitacolo e s’avvicinava alla Fiat 126, dove Tutino, rannicchiato sotto lo sterzo, gli diceva che stava incontrando qualche difficoltà. Proprio in quel frangente, passavano alcune persone (un uomo, con in braccio un bambino piccolo ed una donna che camminava, dando la mano ad una bambina più grande), che, apparentemente, non s’accorgevano d’alcunché. A quel punto, Spatuzza s’introduceva anch’egli all’interno dell’abitacolo ed, alla fine, i due sodali riuscivano a romperne il bloccasterzo. Ciononostante, una volta collegati i fili dell’accensione, non riuscivano a mettere in moto la vettura (che, come si vedrà in altra parte della motivazione, aveva dei problemi anche d’accensione), sicché, dopo averla condotta, a mano, fuori della stradina, a fondo chiuso, dove si trovava posteggiata, decidevano di portarla via a spinta, appunto, avvalendosi dell’automobile del fratello di Spatuzza. Utilizzando tale metodo, i due giungevano, sicuramente prima della mezzanotte, in un garage del quartiere di Brancaccio, nella disponibilità di Spatuzza dove ricoveravano la Fiat 126 (le operazioni duravano, complessivamente, più di un’ora); Spatuzza informava poi Fifetto Cannella.

[…] Sulla collocazione cronologica di questa prima fase, il collaboratore di giustizia non forniva dati precisi, ma solo indicazioni piuttosto approssimative. Detta circostanza (assolutamente comprensibile, anche alla luce del lungo tempo decorso dai fatti), non preclude comunque una ricostruzione attendibile, cui pare ben possibile addivenire, attraverso una lettura ‘sinottica’ delle dichiarazioni di Spatuzza e degli ulteriori dati istruttori disponibili (di seguito evidenziati).

Il furto dell’auto

Un primo dato certo è che la Fiat 126 utilizzata come autobomba in via D’Amelio veniva inserita nell’archivio del Ministero dell’Interno il 10 luglio 1992, poiché in tale data, Pietrina Valenti ne denunciava il furto presso la Stazione Carabinieri di Palermo-Oreto: inoltre, il furto veniva denunciato dalla proprietaria come avvenuto la sera o la notte prima. Un altro dato certo (sul quale convergono le dichiarazioni di tutti i soggetti coinvolti) è che la proprietaria della Fiat 126 incaricava Salvatore Candura di ricercare l’automobile, una volta avvedutasi della sua sottrazione.

A tal proposito, Pietrina Valenti (con modalità alquanto confusionarie), sosteneva di aver presentato la sua denuncia subito dopo la scoperta del furto, aggiungendo di ricordare “perfettamente” che si trattava di una domenica (in realtà, il 10 luglio 1992 era un venerdì), tanto che (a suo dire) le veniva richiesto di tornare in un altro giorno non festivo, perché non c’era personale disponibile per raccogliere la sua denuncia.

Luciano Valenti (anch’egli in maniera confusa), dapprima rispondeva che sua sorella Pietrina sporgeva denuncia subito dopo essersi accorta del furto e poi, dopo la lettura delle sue precedenti dichiarazioni al dibattimento del processo c.d. Borsellino uno, confermava che Pietrina ritardava la denuncia, si pure di poco, in attesa dell’esito delle ricerche dell’automobile, da parte di Candura. […] Sulla stessa linea, anche le dichiarazioni di Salvatore Candura, che spiegava come, su suo consiglio, Pietrina Valenti (che lo sospettava del furto della sua automobile), prima di sporgere la denuncia, attendeva l’esito delle sue ricerche, per “un po’ di giorni”. […] Dunque, sulla scorta degli elementi sin qui richiamati, si può ritenere provato, che il furto della Fiat 126 veniva consumato in epoca compresa tra i primi giorni di luglio 1992, così come dichiarato da Salvatore Candura, e la sera del giorno 9 luglio 1992, come indicato dalla stessa Pietrina Valenti nella denuncia presentata ai Carabinieri, l’indomani 10 luglio 1992. La tesi più ragionevole è che la sottrazione della Fiat 126 sia avvenuta diversi giorni prima rispetto alla denuncia, attesa la convergenza, in tal senso, di plurime fonti dichiarative (Salvatore Candura, Roberto Valenti ed anche Luciano Valenti, almeno secondo quanto dal medesimo dichiarato nel processo c.d. Borsellino uno) ed in considerazione anche della circostanza (pacifica) che la proprietaria si rivolgeva a Salvatore Candura per recuperare il veicolo (come da lei ammesso), secondo una prassi che, evidentemente, richiedeva che la stessa attendesse poi l’esito delle ricerche del mezzo, almeno per qualche giorno, prima di denunciarne la sottrazione alle autorità, tanto più che lei sospettava proprio del Candura, per la commissione del furto. Inoltre, in tale ottica, potrebbe avere senso anche la circostanza (diversamente non spiegabile) che Pietrina Valenti ricordava “perfettamente” di essersi recata in Caserma in una giornata domenicale, non appena si avvedeva della sottrazione della sua Fiat 126: pare, infatti, del tutto ragionevole ipotizzare (alla luce delle suddette risultanze istruttorie) che la stessa sia andata, effettivamente, dai Carabinieri la domenica 5 luglio 1992 e che, alla richiesta dei militari di ripresentarsi in giorno non festivo, abbia poi deciso di rivolgersi al Candura, per cercare di recuperare l’automobile, facendogli presente (proprio come dichiarato da quest’ultimo), che in caso di mancato ritrovamento della Fiat 126, sarebbe andata a denunciarne la sottrazione, come effettivamente avvenuto il successivo venerdì 10 luglio 1992.

[…] Il ricordo (comprensibilmente) poco nitido di Gaspare Spatuzza, sulla data dell’incarico di rubare una Fiat 126 (sintomo evidente di genuinità delle sue dichiarazioni), può essere colmato da altri elementi istruttori, assolutamente compatibili con le sue dichiarazioni ed utili a ricostruire l’esatta cronologia (anche) di questo segmento esecutivo. […] Dunque, andando a ritroso di circa una settimana o poco più, secondo l’indicazione fornita da Gaspare Spatuzza, è del tutto verosimile collocare l’incarico di Cannella, per il furto della Fiat 126, alla fine del mese di giugno. […] Dopo aver riferito dell’incarico ricevuto per il furto della Fiat 126 e delle modalità con le quali assolveva a detto compito, come detto, unitamente all’imputato Vittorio Tutino, nonché del luogo in cui ricoverava l’autovettura, subito dopo la sottrazione, Gaspare Spatuzza proseguiva nel suo racconto, spiegando che, dopo aver fatto sapere a Fifetto Cannella che aveva appunto rubato la macchina, veniva convocato dal capo mandamento, Giuseppe Graviano, che – in quel frangente – trascorreva la latitanza a Falsomiele, nella casa di Borgo Ulivia, del padre di Fabio Tranchina [...].

Le direttive di Giuseppe Graviano

Nell’occasione, come detto, da collocare in epoca antecedente al pomeriggio del 7 luglio 1992 (allorquando il capo mandamento si allontanava dalla Sicilia, facendovi rientro il 14 luglio 1992), Graviano si informava, innanzitutto, da Spatuzza sul luogo dove aveva rubato l’automobile (la zona dov’era posteggiata la Fiat 126 ricadeva nel territorio del mandamento di Brancaccio, diviso da quello di Santa Maria di Gesù, dalla via Oreto) e gli chiedeva anche se, dalla visione dei documenti o dall’eventuale richiesta di restituzione del mezzo, la stessa fosse riconducibile a persone di loro conoscenza […]. Spatuzza osservava le direttive ricevute, così come quella di comprare un bloccasterzo ad ombrello, da poter applicare al volante della Fiat 126 (evidentemente, in vista della sua collocazione in via D’Amelio, al fine di allontanare dubbi che la stessa fosse rubata), bruciando tutto ciò che era contenuto all’interno (immagini sacre, documenti ed anche un ombrello). […] Nel frattempo (come anticipato), pochi giorni dopo il furto della Fiat 126118, Spatuzza, collegandone i fili dell’accensione, l’aveva messa in moto e trasportata in un altro garage, anch’esso nella sua disponibilità, nella zona della famiglia di Roccella […]. Dopo aver riferito dello spostamento della Fiat 126 in un altro magazzino (rispetto a quello di Brancaccio, dove aveva ricoverato l’automobile, subito dopo averla rubata), nel territorio della famiglia di Roccella (sempre ricompreso nel mandamento di Brancaccio), nonché dell’incontro con Giuseppe Graviano (nella casa del padre di Fabio Tranchina) e dell’adempimento delle direttive impartite da quest’ultimo, in merito alla sistemazione dell’automobile (provvedendovi direttamente, salvo che per la sistemazione dei freni, per cui s’avvaleva dell’amico meccanico, Maurizio Costa), Gaspare Spatuzza riferiva anche gli ulteriori segmenti della sua partecipazione alle attività preparatorie della stage di via D’Amelio, con il contributo operativo, ancora una volta, dell’imputato Vittorio Tutino. Infatti, dopo un ulteriore incontro con Giuseppe Graviano, nella casa del padre di Fabio Tranchina, la settimana precedente alla strage del 19 luglio 1992, con le ulteriori direttive del capo mandamento sul furto delle targhe che Spatuzza doveva effettuare (tassativamente) sabato 18 luglio 1992, in orario di chiusura degli esercizi ed evitando effrazioni (per ritardare il più possibile la denuncia di furto), proprio in quest’ultimo giorno (vale a dire la vigilia della strage), Vittorio Tutino rintracciava il collaboratore, mentre costui si trovava a casa della madre, poiché doveva consegnargli delle batterie per automobile (evidentemente, assolvendo ad un incarico). Pertanto, i due sodali si recavano, prima dell’orario di chiusura mattutina, dall’elettrauto “Settimo”, in Corso dei Mille, dove Tutino ritirava le “due batterie”, dopo averne controllato la carica (così testandone l’efficienza), consegnandole a Spatuzza, assieme ad “un antennino”, del tipo di quelli che venivano montati nella canaletta di utilitarie di piccola cilindrata.

Spatuzza si recava, quindi, nel garage di Roccella, dove la Fiat 126 era ricoverata e collocava le due batterie e l’antennino all’interno dell’abitacolo, dove aveva già posizionato anche l’occorrente per poter sostituire le targhe che, di lì a poco, avrebbe rubato, secondo le predette direttive di Giuseppe Graviano ed avvalendosi, ancora una volta, dell’amico e sodale Vittorio Tutino. Peraltro, Spatuzza chiariva anche a cosa servisse il predetto materiale, recuperato attraverso l’ausilio dell’imputato, sia pure facendo riferimento alla sua successiva esperienza criminale, in particolare a quella relativa all’attentato di via Fauro a Roma, allorquando veniva approntato un meccanismo di doppia detonazione per l’ordigno esplosivo destinato al giornalista Maurizio Costanzo, appunto, utilizzando due batterie (in quel caso di motociclo), a garanzia di una maggiore riuscita dell’azione delittuosa (in quel caso, non portata a compimento). Successivamente, nel pomeriggio della medesima giornata di sabato 18 luglio 1992, in orario ricompreso tra le ore 15 e le ore 18, Gaspare Spatuzza veniva contattato, sotto la propria abitazione, nel quartiere Brancaccio, da Fifetto Cannella, che gli comunicava che si doveva spostare la Fiat 126. […] Giunto in via Don Orione, sempre seguendo le vetture del Cannella e del Mangano (proprio all’altezza della casa della suocera di Vittorio Tutino), Spatuzza notava i predetti sodali che arrestavano la marcia e, in particolare, Cannella che gli faceva cenno di posteggiare la Fiat 126. Così faceva Spatuzza, che scendeva anche dall’abitacolo, per dirigersi a piedi (non sapendo bene cos’altro fare) verso un bar ubicato lì all’angolo, venendo subito raggiunto da Cannella, a piedi, che gli diceva di salire nuovamente a bordo della Fiat 126 e di seguirlo.

Cannella e Mangano, camminando a piedi conducevano, quindi, Spatuzza in via Villasevaglios, all’interno di un vano seminterrato di uno stabile sulla destra di tale strada, nel quale si accedeva attraverso uno scivolo (dove, come si vedrà, Spatuzza portava gli inquirenti, nel corso del sopralluogo). Imboccando tale scivolo e svoltando poi a destra, Spatuzza notava, tra i numerosi garage del seminterrato, uno che era proprio di fronte alla sua autovettura e che aveva la saracinesca già aperta, con all’interno due uomini: uno era Lorenzo (detto Renzino) Tinnirello, come già accennato, all’epoca dei fatti, vice capo della famiglia di Corso dei Mille (sulla cui figura ci si soffermerà in altra parte della motivazione), mentre l’altro era uno sconosciuto, verosimilmente estraneo a Cosa nostra (secondo lo stesso collaboratore, una presenza anomala e misteriosa). Era proprio su Tinnirello che si concentrava l’attenzione di Spatuzza, poiché era quest’ultimo che lo guidava, con i gesti, nella manovra di parcheggio nel garage. Terminata detta manovra, Spatuzza faceva notare a Tinnirello la presenza, all’interno dell’abitacolo, del materiale che aveva procurato, anche grazie all’ausilio di Tutino (le due batterie e l’antennino, oltre al necessario per reinstallare delle altre targhe che avrebbe dovuto rubare, di lì a poco), raccomandando anche di ripulire lo sterzo, il cambio e la maniglia dalle impronte digitali che aveva lasciato.

Mentre usciva dal garage, in compagnia di Cannella, Spatuzza vedeva sopraggiungere, scendendo lungo il predetto scivolo d’accesso al seminterrato, Francesco (detto Ciccio) Tagliavia, all’epoca dei fatti, come accennato, a capo della famiglia di Corso dei Mille (anche su tale figura ci si soffermerà in altra parte della motivazione) e latitante, sicché, proprio per quest’ultimo motivo, il collaboratore evitava anche solo di salutarlo. Spatuzza s’allontanava, poi, a bordo dell’autovettura del Cannella.

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