Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.

Il mio rapporto con Brusca, da collaboratore di giustizia, era così. Un dialogo tra siciliani dove, più che le parole dette, contavano i gesti, le espressioni del viso, le pause, le interruzioni di frasi al momento giusto, il nome buttato lì, quasi per caso, ma che ha un significato inequivocabile per entrambi. Sono stato spesso rimproverato da Gian Carlo Caselli, che, da piemontese concreto e razionale, voleva vedere nero su bianco dichiarazioni chiare e comprensibili a tutti. Anche a distanza di anni. E aveva indubbiamente ragione, come quest'episodio dimostra chiaramente.

Purtroppo con Giovanni Brusca non riuscivo a comportarmi diversamente. Se forzavo troppo la mano, se tentavo di costringerlo a esprimersi apertamente, senza perifrasi, senza sottintesi, si irrigidiva e diventava estremamente evasivo. E poi ero perfettamente consapevole che l'ex boss di San Giuseppe Jato non intendeva affrontare certi argomenti particolarmente spinosi. Riteneva, e forse a ragione, che non ci fossero le condizioni per far piena luce su alcune vicende politico-giudiziarie degli anni Ottanta e Novanta.

«Dotto', non mi posso mettere contro a tutti» mi dice alla fine di un interrogatorio, notando la mia faccia delusa, mentre lo saluto nel carcere romano di Rebibbia.

Ormai è irriconoscibile. Ha perso almeno una quindicina di chili. Quella pancia enorme e quella barba lunga e incolta, che avevano fatto il giro delle televisioni di mezzo mondo al momento del suo arresto e che erano state pubblicate in prima pagina persino dal «Times», sono uno sbiadito ricordo. Occhialini da intellettuale, capelli corti e ordinati, fisico asciutto. Sembra un tranquillo e educato ragioniere di mezz'età. Solo che i conti li facciamo sugli omicidi che aveva commesso o ordinato. Non se li ricorda nemmeno tutti, tanto che sono costretto a procurarmi un elenco dei morti ammazzati e delle scomparse in Sicilia occidentale negli ultimi vent'anni.

E, con lui, a spuntare la lista: «Questo omicidio l'ho fatto io; di quest'altro non so nulla; di questo conosco il movente; questo dovrebbe averlo deliberato Tizio; questo tipo l'hanno fatto sparire Caio e Sempronio su ordine mio...».

Le remore morali nei confronti dei suoi amici ed ex amici paiono scomparse. Elenca con precisione fatti, nomi e circostanze. Adesso sembra aver chiuso definitivamente con il suo passato di mafioso di prim'ordine. Le prime fasi della collaborazione di Giovanni Brusca erano rimaste coperte da strettissimo riserbo anche nell'ambiente giudiziario. Oltre a Gian Carlo Caselli, che aveva informato i procuratori aggiunti, solo Franco Lo Voi e io ne eravamo a conoscenza.

La decisione di collaborare

Il boss di San Giuseppe Jato aveva manifestato la sua volontà di collaborare con lo Stato, guarda caso, proprio alle cinque di pomeriggio del 23 maggio 1996, a distanza di quattro anni esatti dal momento in cui aveva azionato il telecomando utilizzato per la strage di Capaci.

«Il bambino ha bisogno di affetto» mi dicono con quella telefonata dall'Ucciardone. Ma noi vogliamo veramente darglielo, quell'affetto?

Non avverto subito Caselli. Mi voglio prendere qualche minuto di riflessione. In fondo si tratta del boia di Falcone, dell'uomo che ha fatto strangolare e disciogliere nell'acido un ragazzino di quattordici anni dopo averlo tenuto sequestrato per ventisei mesi, dello spietato killer che ha ammazzato decine, forse centinaia, di persone. Ci ha fatto impazzire per catturarlo e adesso, tre giorni dopo il suo arresto, si arrende e ci chiede i benefici previsti per i collaboratori di giustizia. Troppo comodo. «Troppo comodo e troppo facile. Troppo comodo, troppo facile e troppo semplice» avrebbe detto il padre della Sedotta e abbandonata del film di Pietro Germi. E noi cosa diremo ai familiari delle sue vittime? Uno come Brusca non dovrebbe marcire, morire all'ergastolo? Non è giusto che il Paese si prenda la sua «vendetta» fino in fondo?

Domande legittime, ma domande da cittadino qualunque. Domande etiche - mi dico - e un magistrato ha il dovere di essere laico. E poi esiste una legge dello Stato. Perché non si deve applicare anche per Giovanni Brusca? Solo perché è 'U verru, il maiale? Il suo aiuto può essere veramente importante. Può consentirci di leggere dall'interno, ai massimi livelli, la storia di Cosa nostra degli ultimi vent'anni. Come si può rinunciare a un patrimonio di conoscenze così ricco e che può servire a salvare tante vite umane?

«Ma riuscirò a stringergli la mano quando lo dovrò interrogare?» Fa brutti scherzi il cervello in certe situazioni. Tra tutte le innumerevoli, e decisamente molto più delicate, questioni che avrebbe comportato una collaborazione di Brusca, il problema che mi assilla più di ogni altro è quello del mio eventuale contatto fisico con le mani che hanno versato il sangue di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. Forse è per questo motivo che decido di parlare subito con Franco Lo Voi, che di Falcone e della moglie era veramente amico. «Cosa farebbe Giovanni al nostro posto? Questa è l'unica domanda che dobbiamo porci. E la risposta è scontata. Dobbiamo andare avanti!»

La stessa sera richiediamo e otteniamo dal ministro della Giustizia l'autorizzazione al colloquio investigativo. Luigi Savina e Claudio Sanfilippo, nascosti nel cofano di una macchina, entrano nell'area riservata del carcere dell'Ucciardone. E incontrano Brusca.

I due poliziotti ritornano con una marea di informazioni sui possibili rifugi di vari latitanti. Ci accorgiamo, però, che si tratta solo di gente strettamente legata a Bernardo Provenzano: Carlo Greco, Pietro Aglieri, Salvatore Di Gangi, Nino Giuffrè. Nulla su Matteo Messina Denaro, nulla su Vito Vitale, nulla su Gaspare Spatuzza. Per sfruttare al massimo quelle indicazioni ed evitare che possano trapelare indiscrezioni, decidiamo di non andarlo a interrogare.

Brusca fa il mafioso a tutti gli effetti. Partecipa ai processi, inveisce contro gli «infami pentiti» che lo chiamano in causa, scambia occhiate e cenni d'intesa con gli altri boss che, come lui, occupano le gabbie delle aule bunker di mezza Italia.

Nel frattempo cominciamo a sviluppare le sue informazioni. Troviamo il covo di Salvatore Di Gangi, il boss di Sciacca, che però ci sfugge per un soffio. Piazziamo microspie nei posti dove potrebbe rifugiarsi Provenzano anche se capiamo subito che le informazioni di Brusca, che erano sicuramente buone, sono ormai vecchie e superate. L'anziano e accorto capomafia corleonese - preoccupato dalla collaborazione di Monticciolo e temendo che Brusca potesse avergli rivelato le notizie che conosceva sulla sua latitanza - aveva già tagliato tutti i vecchi contatti.

Dà invece esito positivo l'indagine su Carlo Greco, numero due del mandamento mafioso di Santa Maria di Gesù, che catturiamo il 25 luglio 1996.

Per evitare che l'arresto di Greco possa essere messo in relazione con Giovanni Brusca, io e Franco Lo Voi, che eravamo notoriamente i magistrati che avevano coordinato le indagini per la cattura del boss di San Giuseppe Jato, non partecipiamo alla conferenza stampa di rito. Addirittura evitiamo di firmare le richieste di convalida degli arresti dei favoreggiatori di Greco chiedendo al collega Antonio Ingroia la cortesia di farlo al nostro posto.

Ma non servirà a molto. Già lo stesso giorno della cattura di Carlo Greco qualche giornalista comincia a farci domande sulla sorte dell'assassino di Falcone: «Dov'è? Cosa fa? Quante volte lo avete interrogato? Come mai sua moglie non è a San Giuseppe Jato? È vero che si è pentito? E l'arresto di Carlo Greco?».

Non possiamo più procrastinare l'incontro con Brusca. Gli faccio notificare un avviso di garanzia per un omicidio «qualsiasi», quello di Massimo Capomaccio. In questo modo posso nominargli un difensore d'ufficio diverso dall'avvocato Vito Ganci, suo legale di fiducia in altri processi. E andiamo a interrogarlo. In gran segreto.

La riservatezza assoluta è il nostro assillo: per sentirlo utilizziamo un ufficio dell'amministrazione postale di Palermo. Con me, tra sacchi di lettere e raccomandate, ci sono Gian Carlo Caselli, Guido Lo Forte, Arnaldo La Barbera, Luigi Savina, Claudio Sanfilippo. L'avvocato d'ufficio, regolarmente avvisato, non è venuto e Brusca non ha voluto nominarne uno di fiducia.

Le dichiarazioni su Andreotti

È il 27 luglio. Il boss di San Giuseppe Jato non è diverso da come lo avevamo visto il giorno della cattura. Si è solo sfoltito un po' barba e capelli e si è cambiato d'abito. Peraltro il viaggio nell'angusto cellulare completamente schermato alle quattro di quel pomeriggio estivo lo ha fatto sudare. Previdente, si è portato una camicia di ricambio che ha indossato prima di entrare nell'ufficio dove lo aspettiamo. E dove tutti gli stringiamo la mano.

C'è qualcosa di strano, però, e non si tratta di quell'iniziale imbarazzo assolutamente normale in questi casi. Mi colpisce il suo anomalo atteggiamento, supponente e arrogante. Come se fosse lì a farci una cortesia, suo malgrado.

Comincia l'interrogatorio e, fin dalle prime battute, Giovanni Brusca fa di tutto per parlare di Giulio Andreotti, il senatore a vita più volte presidente del Consiglio in quel momento sotto processo a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa.

No, non era certo quella la nostra priorità. Nessuno gli aveva rivolto domande al riguardo. Come per ogni collaboratore i primi interrogatori erano destinati alle emergenze: progetti di omicidi da evitare, latitanti da catturare, armi da sequestrare, «talpe» da rendere innocue.

Con Brusca questo non è possibile. Ha stabilito che ci deve parlare di quello che vuole lui. Sposta sempre il discorso sulla collaborazione di Balduccio Di Maggio, il «pentito del bacio», una delle principali fonti di accusa nel processo Andreotti. Lo accusa di aver detto una serie di bugie. Evidentemente lo vuole delegittimare, operazione che subito dopo tenta di fare anche con Monticciolo: «Non c'era Vito Vitale a sparare ai Giammona ma mio fratello Enzo. Giovanni Riina non c'entra con lo strangolamento di Antonio Di Caro. Monticciolo vi ha mentito. E con lui Chiodo, il custode di Giambascio».

Lasciamo Brusca con una sensazione di disagio. Sarà difficile avere una collaborazione sincera, attendibile da lui. Le cose addirittura peggiorano nel secondo incontro. Siamo in una cella di Rebibbia adesso. Con me, che mi limito a svolgere il lavoro materiale di registrazione e verbalizzazione, ci sono i procuratori di Palermo, Firenze e Caltanissetta.

«I tre tenori», li avevo definiti scherzosamente per l'occasione, con riferimento al famoso concerto alle Terme di Caracalla di Pavarotti, Domingo e Carreras. Solo che Brusca vuole fare lo Zubin Metha della situazione, vuole essere ancora lui il regista delle «cantate». E, di fatto, ci riesce.

Evasivo sulle domande specifiche che gli si pongono, batte sempre sullo stesso chiodo: Andreotti, Di Maggio e Monticciolo.

I numerosi «esami» successivi cui viene sottoposto durante un agosto caldissimo, passato da me e da tanti altri colleghi interessati alle rivelazioni dell'uomo di Capaci in una cella rovente del carcere romano, danno i medesimi risultati.

«Senta Brusca, guardi che Di Maggio ha escluso di aver partecipato, come dice lei, alla strage Chinnici e ha detto che l'omicidio Filippi è stato commesso materialmente da suo fratello Enzo.» «Francesco Di Piazza ci risulta essere uomo d'onore e proprio nella sua stalla dovrebbe essere stato ucciso Antonio Di Caro.» «Dalle dichiarazioni di Monticciolo e dai rapporti della Dia emerge che suo cugino Stefano Bommarito e Romualdo Agrigento hanno custodito il piccolo Di Matteo...»

«È tutto falso,» era la monotona risposta di Giovanni Brusca «Di Maggio e Monticciolo non dicono la verità.»

Ricordo, a settembre, una riunione di coordinamento presieduta da Bruno Siclari, l'allora procuratore nazionale antimafia, con la partecipazione dei rappresentanti delle tre procure interessate. Noi, d'intesa con i colleghi di Firenze, volevamo sospendere gli interrogatori di Brusca: lo ritenevamo inattendibile e gli volevamo mandare un chiaro segnale di disinteresse rispetto alle sue rivelazioni inquinate e inquinanti. La procura di Caltanissetta, invece, voleva andare avanti.

Durante l'accesa discussione, il procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra tira fuori l'asso dalla manica, l'argomento, secondo lui, vincente: «Diamo tempo a Brusca, è da meno di un mese che lo interroghiamo. Non possiamo interrompere un rapporto appena nato». La brillante replica di Roberto Scarpinato, magistrato di Palermo, fa ormai parte della tradizione orale della procura: «Un rapporto si nutre di presenze, ma anche dello splendore fittizio dell'assenza!». E ci aggiudichiamo la partita «congelando» Brusca.

La tattica attendista dà i suoi frutti. Giovanni Brusca corre ai ripari e, non so come, riesce a comunicare al fratello che è detenuto all'Ucciardone di farsi avanti. Enzo deve semplicemente far finta di collaborare e confermare le fandonie che ci aveva raccontato Giovanni.

La solita Armida Miserere, che ancora dirigeva il carcere palermitano, ci avvisa immediatamente dell'intenzione del più piccolo dei Brusca. Da donna intelligente e intuitiva qual era, capisce subito che c'è sotto qualcosa di strano e ci illustra le sue perplessità.

Decidiamo allora di sondare il terreno e, invece di sentire formalmente Enzo, gli mandiamo i poliziotti della mobile per un colloquio investigativo. L'esito è proprio quello che ci aspettavamo: piena conferma delle dichiarazioni del fratello. Addirittura Enzo Brusca si assume la responsabilità di un duplice omicidio a Corleone per il quale in realtà era innocente e che aveva commesso Vito Vitale, il boss di Partinico, amico fidato di suo fratello Giovanni.

In queste condizioni non andiamo nemmeno a interrogarlo. Riteniamo sia opportuno «congelare» anche lui. Enzo, evidentemente, prende atto della nostra indifferenza e pensa di cambiare obiettivo. Si mette a Modello tredici e chiede espressamente di parlare con il maresciallo Di Bella della Dia di Palermo. Antonino Di Bella, da sottufficiale dei carabinieri, aveva comandato a lungo la stazione di San Giuseppe Jato e di quel paese conosceva pure le pietre. Con il maresciallo Rosario Merenda, pure lui della Dia, costituiva la nostra memoria storica sui Brusca e il loro ambiente.

Quando si dice il caso! L'addetto all'ufficio matricola dell'Ucciardone non capisce bene e, ingannato dall'assonanza dei cognomi e dall'iniziale dei nomi di battesimo, invece di «A. Di Bella» trascrive sul modulo il mio nome: «A. Sabella».

Il piano di Brusca inizia a sgretolarsi

L'istanza arriva così sul mio tavolo. È il 1° ottobre del 1996. Io e Lo Voi andiamo in carcere a incontrarlo. Enzo Brusca è stupito di vederci. Si aspettava l'ex comandante dei carabinieri del suo paese. Non era per niente pronto a incontrare dei magistrati.

Comincia a dire di voler collaborare e cerca di raccontare i fatti secondo la versione del fratello. Ma non ha una grande stoffa da mafioso e non è in grado di sostenere un interrogatorio come si deve. Un paio di contestazioni da parte nostra ed Enzo cede. Ci accenna sommariamente a un piano di depistaggio elaborato da Giovanni e, stavolta, è lui a chiedere tempo.

Torniamo dopo qualche giorno ed Enzo vuota letteralmente il sacco e mette nero su bianco quello che noi già sospettavamo.

Con la sua collaborazione avvelenata il fratello Giovanni voleva «salvare» da conseguenze penali numerose persone a lui legate, tra cui Vito Vitale e Giovanni Riina. Aveva, soprattutto, intenzione di minare la credibilità di diversi collaboratori di giustizia: da Balduccio Di Maggio a Giuseppe Monticciolo. Giovanni, di fatto, si proponeva «di destabilizzare alcuni processi», parole testuali del fratello. Voleva, insomma, inserire un vulnus nel nostro sistema giudiziario che, inevitabilmente, avrebbe portato a una rimodulazione della normativa in materia di collaborazione con la giustizia. Lo scopo finale era giungere alla revisione di diversi processi fondati principalmente sulle dichiarazioni dei «pentiti».

Un piano che i due fratelli avevano concepito nelle linee generali durante la latitanza. I dettagli, poi, li avevano messi a punto da dietro le sbarre, comunicando a gesti, durante le udienze del processo Agrigento + 61 che li vedeva entrambi imputati.

Non era servito a molto tenerli in celle lontane: per loro, non era necessario parlare. Come tra sordomuti. Bastava un cenno della mano per indicare un luogo o assumere una posa perché fosse chiaro il riferimento a una persona. Era sufficiente il lieve movimento di un braccio per richiamare un episodio del passato, mostrare qualche dito per suggerire una data. E si erano capiti perfettamente.

Il diabolico piano di Giovanni Brusca era fondato su un ragionamento semplice. Io sono un mafioso destinato a scontare una decina di ergastoli. Accuso qualcuno che è già ampiamente compromesso, faccio arrestare qualche latitante della «parrocchia» di Provenzano e salvo dal carcere a vita molti miei amici. Così evito anche l'ergastolo e, allo stesso tempo, faccio un favore grosso a tutta Cosa nostra distruggendo la credibilità dei più informati collaboratori di giustizia, con in testa il mio odiato nemico Balduccio Di Maggio, approfittando dell'importante platea costituita dal processo Andreotti.

Del resto Giovanni Brusca, già da mafioso latitante, si era in qualche modo specializzato nell'attività di inquinamento delle dichiarazioni dei pentiti. Aveva cominciato dopo che Balduccio Di Maggio aveva accusato Enzo di aver partecipato allo strangolamento di un certo Filippi. Giovanni Brusca aveva costruito ex novo un falso alibi di prim'ordine per il fratello: proprio il 14 novembre 1989, il giorno di quell'omicidio, Enzo Brusca era stato operato di ernia inguinale a Palermo e, dunque, si trovava in un letto d'ospedale e non certo a San Giuseppe Jato, in contrada Dammusi, a tirare il cappio messo al collo del povero Filippi, così come aveva dettagliatamente riferito Di Maggio. Era tutto a posto. C'era una regolare cartella clinica a nome di Enzo Salvatore Brusca, con corrette date di ingresso, operazione e dimissione. Il suo nome risultava annotato, alla pagina 163, nell'elenco dei ricoverati della Terza Chirurgia dell'Ospedale Civico di Palermo e nel registro delle persone dimesse qualche giorno dopo. Persino in una cartella successivamente rilasciata a Enzo era riportato il precedente intervento di ernia inguinale eseguito il giorno dell'omicidio.

Agevole quindi la tesi difensiva dell'avvocato Vito Ganci: «Di Maggio si è indubbiamente sbagliato. E così come si è sbagliato con Enzo Salvatore Brusca potrebbe essersi sbagliato con tanti altri innocenti padri di famiglia che ha coinvolto con le sue dichiarazioni. L'uomo che, si dice, ha contribuito alla cattura di Salvatore Riina deve essere ritenuto inattendibile».

Peccato che fosse tutto falso. Nessuna traccia della scheda anestesiologica di Enzo Brusca. Il registro della sala operatoria di quel giorno risultava, guarda caso, introvabile. Soprattutto le pagine dei libri dell'ospedale con il nome di Brusca erano «troppo nuove» e non c'era più indicato tale Alessandro Scalea, effettivamente operato di ernia inguinale quel giorno: quel nome, opportunamente, era stato sostituito con quello di Enzo Brusca. Aveva fatto tutto il dottor Salvatore Aragona, medico dell'ospedale palermitano e amico personale di Giovanni. Si era perfino occupato di far rilegare in una tipografia i registri artefatti.

copertina libro sabella cacciatore

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