Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.

La brillantissima indagine condotta dai miei colleghi che si occupavano di Di Maggio consente di smascherare il tentativo di Brusca di minare l'attendibilità del collaboratore ed Enzo non solo è costretto a rimanere latitante, ma deve anche farsi operare. E stavolta davvero.

Teme infatti che, in caso di arresto, gli inquirenti si accorgano che sul suo corpo non c'è traccia di cicatrici compatibili con l'operazione di ernia. Il dottor Salvatore Aragona si presenta allora, con bisturi e tamponi, in un casolare dove Enzo passa la sua latitanza. In una normale camera da letto ben diversa da una sterile sala operatoria e con l'assistenza di Giuseppe Monticciolo - che tutto poteva fare in vita sua meno che l'infermiere - il medico pratica al paziente una blanda anestesia locale. Gli incide in profondità l'inguine, ledendogli accidentalmente anche un nervo e provocandogli fortissimi dolori; quindi sutura la ferita.

Con il famoso senno di poi - mi dice Enzo Brusca quando mi parla del drammatico intervento chirurgico cui si era sottoposto e della quantità massiccia di antibiotici che aveva dovuto assumere per scongiurare probabili infezioni - mai e poi mai si sarebbe fatto operare in quelle condizioni. A saperlo avrebbe scelto un alibi diverso. Magari come quello che gli stessi Brusca erano riusciti a fornire a un loro uomo, Michelino Traina, l'esecutore materiale dell'omicidio Capomaccio, sospettato, a ragione, di aver preso parte a una sanguinosa rapina all'ufficio postale di Altofonte con morti e feriti.

In quel caso avevano dato fondo alla fantasia e avevano, addirittura, replicato una cerimonia di nozze. Approfittando di un matrimonio di gente del luogo che si era svolto proprio il giorno della rapina, avevano fatto indossare nuovamente agli sposi gli abiti nuziali. Un fotografo compiacente aveva scattato nuove foto del finto matrimonio. Nella scena ricostruita, in mezzo ad alcuni degli invitati, costretti a rimettersi, per l'occasione, i vestiti della festa, faceva capolino la faccia sorridente di Michele Traina. In giacca e cravatta e con un bel garofano bianco all'occhiello.

Le testimonianze, false, degli sposi e il riscontro documentale delle fotografie avevano salvato Michelino da qualche decina di anni di carcere, mentre l'alibi di Enzo era miseramente naufragato. Ma Giovanni Brusca insiste nella sua «crociata» contro gli odiati pentiti.

Il 25 novembre 1993 Gioacchino La Barbera, capofamiglia di Altofonte, detenuto da nove mesi, decide di collaborare e indica a magistrati e investigatori i luoghi dove sono sepolti i cadaveri di quattro persone uccise e un deposito di armi.

Il collaboratore, però, fornisce le relative indicazioni qualche giorno dopo il suo primo interrogatorio. Troppo tardi. E il piano di Brusca va, almeno in parte, a buon fine. Il boss di San Giuseppe Jato, che ha saputo per tempo dai familiari di La Barbera della sua decisione di saltare il fosso, si attiva immediatamente. Fa subito spostare morti e armi in altri luoghi affinché le indicazioni del collaboratore risultino infondate. Sono Chiodo e Monticciolo che si disfano dei cadaveri, già in avanzato stato di decomposizione. Li distribuiscono nei cassonetti di vari paesi. Un'azione raccapricciante: corpi di esseri umani che finiranno come immondizia in qualche discarica dove non potremo più recuperarli. Brusca non fa però in tempo a trasferire altri due cadaveri, quelli di Vincenzo Milazzo, capofamiglia di Alcamo, e della sua fidanzata uccisi dallo stesso boss di San Giuseppe Jato nel luglio 1992. La Barbera li ha interrati personalmente con una pala meccanica e riesce a condurre la Dia sul posto esatto, «salvando» così la sua attendibilità.

I tentativi di inquinare le indagini

Paradossalmente i depistaggi e gli inquinamenti che riescono meglio a Brusca sono proprio quelli che, alla fine, non voleva portare avanti. Il primo di questi riguarda un'indagine che era stata avviata nei confronti di don Mario Campisi, segretario particolare di monsignor Salvatore Cassisa, arcivescovo di Monreale.

Nel corso delle ricerche di don Luchino Bagarella, avevamo messo sotto controllo il telefono dei Marchese, i parenti della moglie, e, durante un'intercettazione, gli investigatori avevano sentito la voce del boss corleonese che parlava con il cognato Gregorio. Una conversazione su irrilevanti questioni familiari. Dal successivo controllo era emerso che la telefonata proveniva dal cellulare intestato a don Mario Campisi.

Il segretario dell'alto prelato di Monreale era un sacerdote molto attivo negli ambienti giovanili. Pur non venendo mai meno alla sua missione pastorale, partecipava con i ragazzi a feste, veglioni e mangiate collettive. Nel gruppo c'era anche un'amica, una mezza fidanzata di Giovanni Brusca. Insieme decidono di fare a don Mario, se così si può dire, uno scherzo da prete.

La ragazza sottrae il telefono al sacerdote per pochi istanti. Giusto il tempo di staccare la batteria e annotare il numero seriale dell'apparecchio che fa avere a Giovanni Brusca. All'epoca, con il seriale e il numero di telefono, era estremamente semplice clonare un cellulare analogico e Brusca è particolarmente interessato ad ascoltare le conversazioni private del religioso, convinto che la sappia lunga in fatto di donne.

Quel cellulare, copia perfetta dell'apparecchio di don Mario, Brusca lo usa anche mentre svolge i suoi affari. Durante un summit di mafia, il boss curioso, annoiato dagli argomenti affrontati quel giorno, che non lo interessavano, si collega all'utenza del sacerdote per carpirne i dialoghi. Ma poi si dimentica di disconnettere l'apparecchio che lascia acceso sul tavolo. Bagarella, che ha bisogno di chiamare suo cognato Gregorio, usa il telefonino per la conversazione che poi verrà intercettata. Così don Mario Campisi finisce nel registro degli indagati per favoreggiamento aggravato nei confronti di don Luchino Bagarella. L'ipotesi, all'epoca, non sembrava nemmeno tanto insensata poiché monsignor Cassisa, il suo diretto superiore, era rimasto coinvolto, insieme a qualche presunto mafioso, in una storia di appalti e mazzette per i lavori di ristrutturazione del duomo di Monreale. Don Mario era, però, all'oscuro di tutto e, probabilmente, sarebbe stato anche arrestato se i nostri tecnici non avessero capito, alla fine, che si trattava di una clonazione.

L’obiettivo è Luciano Violante

Per un altro tentativo di depistaggio invece Giovanni Brusca non è proprio del tutto incolpevole. Si tratta del noto piano calunnioso elaborato contro Luciano Violante, ex magistrato, parlamentare di sinistra e uno dei simboli dell'antimafia.

Il boss di San Giuseppe Jato, ossessionato dal cosiddetto pentitismo, aveva capito che l'unica arma vincente dei boss era quella di mettere un freno alle collaborazioni con la giustizia. Un pentito fa male, molto male. Rivela dall'interno le dinamiche dell'associazione, i rapporti di forza, i moventi dei delitti. L'investigatore poteva conoscere migliaia di episodi, poteva anche avere un'idea delle relazioni interpersonali o degli obiettivi del sodalizio mafioso, ma senza una chiave di lettura interna, poteva solo formulare delle ipotesi che non poteva sempre dimostrare nei processi.

Brusca conosceva perfettamente le normative giuridiche e aveva anche una chiara idea di come funzionava la giustizia nel nostro Paese. Sapeva che, magari in primo grado, sulla base dell'onda emotiva determinata dalla gravità dei delitti commessi e dell'audizione diretta di vittime, testimoni e investigatori, i giudici potevano anche accontentarsi di indizi, di supposizioni, di ricostruzioni logiche. E ci poteva anche scappare qualche condanna per gli uomini d'onore. Era messa nel conto, ma in appello e, men che meno, in Cassazione no. Lì i fatti sono lontani; lì il processo si fa solo sulle carte; lì le prove logiche e deduttive valgono veramente poco. Senza la parola dei pentiti non sarebbe rimasto granché.

Le strategie di intimidazione dei collaboratori di giustizia avevano fallito, il massacro sistematico dei loro familiari portato avanti da Riina non aveva condotto a risultati di rilievo. Gli assassini a sangue freddo dei figli di Buscetta, di tutti i parenti di Contorno, delle donne della famiglia di Marino Mannoia, erano stati inutili, così come, e gli risultava personalmente, inutili erano stati i due dispendiosi anni di prigionia inflitti a un bambino al fine di indurre il padre a ritrattare.

Bisogna ricorrere a qualcos'altro. E cosa c'è di meglio della calunnia? «'U carbuni si nun tingi mascarìa», il carbone se proprio non colora almeno macchia, si dice in Sicilia.

Inserire dei virus nel sistema in grado di offuscare la credibilità dei pentiti, insinuare dubbi sulla loro sincerità, seminare sospetti sulla genuinità della loro collaborazione. E questo potrebbe bastare. Per farlo bene occorre però un «obiettivo» importante, magari inserito in un contesto che ne incrementi esponenzialmente lo scalpore. L'occasione ideale non può che essere il processo Andreotti e la scelta non può che cadere su Luciano Violante, che da presidente della Commissione antimafia si era occupato della vicenda che aveva coinvolto il senatore a vita.

Così la racconta Giovanni Brusca: mentre era ancora libero, tra la fine del 1991 e l'inizio del 1992, aveva casualmente notato la presenza dell'onorevole Violante su un volo di linea Palermo-Roma. Anni dopo aveva pensato di sfruttare la circostanza. Voleva sostenere che non si era trattato di un incontro occasionale, ma che, al contrario, era stato appositamente organizzato da un esponente della sinistra del suo paese. Secondo il suo piano, Brusca, qualora fosse stato arrestato, avrebbe dovuto chiedere di rendere spontanee dichiarazioni in un dibattimento. Nell'occasione avrebbe pubblicamente dichiarato che Luciano Violante, durante il volo, gli si era seduto accanto per qualche minuto e gli aveva proposto l'impunità per lui e per suo padre se avesse reso false dichiarazioni accusatorie su Giulio Andreotti.

La calunnia, studiata con furbizia, sarebbe stata una vera e propria bomba mediatica. Al boss di San Giuseppe Jato poco importava che venisse creduto o meno. Ci sarebbero state comunque tante e tali polemiche sul processo Andreotti, sulla gestione dei pentiti che lo accusavano, sulla lealtà e correttezza degli organi investigativi e dei rappresentanti delle istituzioni, da travolgere l'intera normativa antimafia.

Brusca, però, da aspirante collaboratore non aveva mai accennato a questa vicenda. In tre mesi di colloqui investigativi e in un mese di interrogatori formali non l'aveva mai tirata fuori. Era un progetto che aveva elaborato da mafioso latitante ma che aveva successivamente abbandonato.

È invece il suo ex avvocato Vito Ganci, verso la fine di agosto, a parlarne con i giornalisti, come se fosse una circostanza realmente accaduta e che i magistrati che interrogavano Brusca avevano messo a tacere. Solo a questo punto e su nostre specifiche domande, Brusca racconta del suo progetto originario e smentisce il suo vecchio difensore riferendo che il fatto era radicalmente falso. Nell'immaginario collettivo la cosiddetta vicenda Violante è da ricondurre alle dichiarazioni di Giovanni Brasca, ma non è così.

Brusca, è vero, aveva pensato al progetto calunnioso, ma non aveva nemmeno cominciato a eseguirlo. Forse anche perché rischiava di trovare smentite nel suo stesso ambiente, familiare e mafioso, smentite che avrebbero potuto trasformare il suo piano in un vero e proprio boomerang. Giuseppe Monticciolo - qualche mese prima, in epoca assolutamente non sospetta - ci aveva raccontato, in un formale interrogatorio, del progetto elaborato dal suo ex capo su Luciano Violante. Monticciolo sosteneva addirittura che Brusca non era nemmeno su quell'aereo, dove invece si trovava qualcun altro che gli aveva raccontato di aver visto il parlamentare.

La stessa versione dei fatti me la darà, mesi dopo, Enzo Brusca: «Su quell'aereo c'era mio fratello Emanuele, il maggiore. Non capisco perché Giovanni si ostini a dire che su quel volo c'era lui».

Enzo, almeno per me, è stata la cartina al tornasole, lo strumento che mi ha consentito di verificare in tempo reale l'attendibilità del più noto fratello.

E finalmente Giovanni parla

Infatti, dopo che Enzo Brusca ci rivela l'intero piano di depistaggio organizzato da Giovanni lo facciamo trasferire segretamente in un carcere speciale, tutto per lui. A Monza, in una sezione in ristrutturazione.

Dove non c'è nessun altro detenuto; dove svolge colloqui centellinati e solo con la sua compagna; dove non può entrare alcuno degli agenti della polizia penitenziaria che si occupano di collaboratori di giustizia e, soprattutto, del fratello Giovanni.

Un carcere dove, però, Enzo Salvatore Brusca - mi dice - si sente finalmente libero.

Non è un paradosso, ma la presa d'atto di un timidissimo «picciotto» di ventotto anni. Se non fosse stato figlio di Bernardo Brusca, se non avesse avuto quali modelli di vita il fratello Giovanni o gente come Salvo Madonia e Giuseppe Graviano, se non avesse passato le domeniche a giocare in una casa di campagna con i figli di Raffaele Ganci, mentre suo padre e il boss della Noce arrostivano cadaveri sul retro (l'acido non sempre era disponibile), forse non avrebbe mai nemmeno saputo cosa era la mafia.

Senza nascondere il dolore che ancora gli provoca l'episodio, Enzo mi racconta una vicenda della sua infanzia, quando per carnevale era riuscito a convincere la madre a comprargli una divisa da guardiamarina. L'aveva indossata ed era corso dal padre per fargli vedere quanto stava bene con quell'uniforme, tutta lustrini e medagliette. Don Bernardo, non appena lo aveva visto, con una mano gli aveva strappato i galloni dorati dalle spalline e con l'altra gli aveva mollato uno schiaffone: «Levati 'sta cosa da sbirro». Una solenne umiliazione.

In cella, Enzo Brusca era finalmente libero anche di mangiare quello che gli andava. Nell'ultima Pasquetta trascorsa con Bagarella, pur avendo una seria forma di intolleranza alimentare ai crostacei, dopo un'occhiataccia del fratello Giovanni, aveva dovuto ingoiare una decina di gamberoni per non dispiacere il boss corleonese che, al contrario, ne era ghiotto e, per l'occasione, ne aveva ordinato un paiodi casse.

Mentre il fratello è recluso nel carcere di Monza, a Giovanni notifichiamo un avviso di garanzia per calunnia aggravata. Gli comunichiamo la decisione di Enzo di abbandonare il suo progetto e gli diamo un po' di tempo per pensare bene alla sua scelta.

Dopo un paio di settimane il boss di San Giuseppe Jato cambia decisamente registro. Capisce che ormai non ha più scelta. È stato letteralmente sbugiardato dal fratello e non può tornare indietro, non può più fare il mafioso detenuto. Da allora, pur con riserve su alcuni argomenti, inizia a collaborare davvero. Qualche mese dopo ci determineremo a richiedere per lui l'applicazione del programma di protezione previsto per i collaboratori di giustizia.

La collaborazione effettiva 

Certo non tutte le questioni sono state risolte. La collaborazione di Brusca procede tra polemiche, smentite, confronti, contraddizioni. Tutto enormemente amplificato dal fatto che si tratta del boia di Capaci. Molti degli apparenti contrasti con le dichiarazioni di altri collaboratori erano, invero, frutto di diverse interpretazioni degli stessi episodi, un po' come per i protagonisti di Rashōmon, la splendida pellicola giapponese di Akira Kurosawa.

Dovevamo essere noi a capire. Con lui era fondamentale, come si dice, separare i fatti dalle opinioni, limitarsi a isolare l'episodio storico depurandolo dalle valutazioni personali e soprattutto dagli inquinamenti che l'originaria ricostruzione del fatto aveva inevitabilmente subito passando di bocca in bocca. Tra i miei stessi colleghi non tutti, per esempio, avevano capito che più si abbassa il livello gerarchico mafioso del dichiarante più i progetti criminali che questo rivela appaiono concreti.

Se a Brusca era scappata l'espressione «l'avvocato Tizio si sta comportando proprio male», per Monticciolo il boss di San Giuseppe Jato aveva pensato di uccidere il legale e per Chiodo, addirittura, si stavano organizzando per ammazzarlo.

In tre anni ho interrogato Brusca circa ottanta volte. Sono sicuramente il magistrato che lo ha incontrato di più e penso di essere riuscito in qualche modo a comprendere il ruolo che ha svolto in Cosa nostra, il suo modo di agire, di pensare, di relazionarsi.

C'è una cosa, però, che certamente non ho mai capito di lui: quanto fosse consapevole del contrasto tra la forma e la sostanza del suo comportamento, a volte macabramente ridicolo. Una volta, dopo aver passato diverse ore a parlare di omicidi, strangolamenti e di cadaveri sciolti nell'acido, mi chiese scusa perché aveva usato l'espressione «ci siamo fatti questa pulitina di piedi» per dire che avevano ammazzato un gruppo di persone. Frase che evidentemente gli era risuonata un po' volgare.

Il massimo Giovanni Brusca l'ha toccato però in un'altra circostanza, quando mi ha raccontato dell'omicidio di un giovane di Altofonte. Aveva programmato il delitto e individuato chi tra i suoi uomini dovesse parteciparvi, ma, il giorno prefissato, uno di questi non si era presentato all'appuntamento perché coinvolto in un incidente stradale.

Brusca aveva deciso di portare ugualmente a termine il progetto di morte, obbligando un altro dei suoi a svolgere un doppio ruolo: «Avevamo fretta, non potevamo più aspettare. Quello si doveva sposare una settimana dopo». «E perché tutta questa fretta?» gli chiedo. Non dimenticherò mai l'espressione stupita del suo viso. Perplesso perché non avevo capito immediatamente: «Ma dottore, non potevamo certo lasciare una vedova!».

copertina libro sabella cacciatore

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