Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.

Le indagini sul delitto Capomaccio sono affidate alla squadra mobile ma le indicazioni che ho avuto io sono da ricondurre ai carabinieri. Impossibile pensare di far lavorare insieme due diverse forze di polizia sulla medesima pista. Occorre fare una scelta che, per me, a quel punto è obbligata.

I carabinieri di Cefalù conoscono il latitante, conoscono il territorio dove dovrebbe muoversi, conoscono i posti dove può rifugiarsi e, soprattutto, conoscono le persone che gli stanno vicino, a cominciare da Tommaso Armillieri. Affido a loro le ricerche di Mico e alla polizia lo sviluppo delle altre dichiarazioni di Andrea Randazzo. Visibilissimo il disappunto di Luigi Savina, che dirige la squadra mobile da poche settimane, quando gli comunico le mie decisioni. Ma non posso fare diversamente. Successivamente diventerò amico di quel bravissimo poliziotto. Ci legheranno sincero affetto e grande stima reciproca, ma il nostro rapporto non nasce certo in quell'occasione. Farinella, legatissimo a Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella ai quali aveva anche fornito appoggi durante la latitanza, in quel momento, è una preda troppo ambita. E poi le indicazioni di Michele Capomaccio e Andrea Randazzo sembrano buone. Per la polizia non è facile rinunciare. Arriva anche qualche pressione dall'alto perché io riveda la mia decisione. Ne parlo pure con Caselli che riconosce la mia autonomia e mi dà il conforto necessario sulla correttezza della mia scelta. L'iniezione di fiducia da parte del mio capo è fondamentale per me. È la prima volta che mi metto, da solo, sulle tracce di un latitante di mafia. Per quanto avessi maturato una discreta esperienza con alcuni rapinatori ai tempi di Termini Imerese, il confronto con gli uomini d'onore che si sono resi irreperibili è tutta un'altra cosa.

L'obiettivo principale è ovviamente Tommaso, il venditore ambulante di biancheria. Si capisce subito che l'indicazione è buona. I carabinieri di Cefalù pensavano di seguirlo discretamente nei suoi giri ai mercatini dei paesi delle Madonie e della costa, pensavano di vederlo vendere lenzuola e federe e litigare sul prezzo con casalinghe parsimoniose. Invece in quei giorni si muove come un manager. Si sposta con una vecchia ma sgusciante Autobianchi A112, incontra imprenditori, commercianti, avvocati, gioiellieri e, tanti, sospetti mafiosi. E resta quasi sempre a Palermo. Troppo rischioso per i militari di Cefalù farsi vedere in città. Il venditore di biancheria madonita potrebbe riconoscerli. È necessario fare intervenire gli uomini del Ros con i loro volti anonimi, le loro facce sconosciute e la loro straordinaria capacità di muoversi nell'ombra, silenziosamente e discretamente.

I carabinieri fanno un ottimo lavoro e, già il giorno dopo l'inizio dei pedinamenti, emerge un dato interessante. Tommaso, in uno dei suoi frenetici giri per Palermo, finisce in via Lincoln, la larga strada che dalla stazione ferroviaria arriva fino al mare. Grandi magazzini di abbigliamento, negozi di prodotti per l'agricoltura e di mobili di qualità improbabile, la sede del «Giornale di Sicilia», l'ingresso dello splendido Orto botanico e, al numero 159, il negozio di scarpe di Robertino borotalco. Proprio lì Tommaso si ferma per qualche minuto e poi va via.

La pista del venditore ambulante

La conferma decisiva della bontà della pista che abbiamo imboccato arriva l'8 novembre. I carabinieri hanno seguito discretamente Tommaso e, verso le otto di sera, lo hanno visto entrare in un complesso edilizio di fronte all'Università degli Studi, uno di quei mostruosi condomini con dieci ingressi, venti scale e mille interni, con i balconi rigorosamente chiusi, in barba alle leggi urbanistiche, da «rimovibili», si fa per dire, verande in alluminio e plexiglas. Ironia della sorte quella via è intitolata proprio a Ernesto Basile, il grande architetto che, tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, aveva fatto di Palermo una delle più belle città d'Europa.

È già buio e i carabinieri non sono riusciti a capire in quale di quella miriade di appartamenti si è

infilato Tommaso e allora decidono di aspettarlo, ma sono costretti a posizionarsi lontano, rintanati in una macchina parcheggiata in una zona non illuminata. Fortunatamente a Palermo non tutti i lampioni funzionano.

Dopo una ventina di minuti Tommaso esce dal palazzo e, a passo veloce, si dirige verso la sua A112. Pochi secondi dopo dallo stesso cancello d'ingresso, al numero 160, escono altri due uomini e uno è proprio lui, è Mico Farinella. I carabinieri ne sono sicuri. Hanno visionato decine di foto del latitante e hanno passato ore a vedere e rivedere il filmato delle nozze di Massimo Capomaccio facendo attenzione a come si muoveva uno dei testimoni dello sposo.

Ma non c'è tempo per riflettere. I due uomini salgono su una moto parcheggiata proprio lì, una Honda Africa Twin, e spariscono zigzagando tra le macchine che affollano anche a quell'ora via Basile. Una scena analoga si ripete l'indomani sera, alla stessa ora. Seguendo Armillieri, i carabinieri giungono davanti a una gioielleria. Dopo un quarto d'ora Tommaso esce dal negozio e dietro di lui Mico con lo stesso uomo del giorno precedente. Stavolta però i carabinieri fanno almeno in tempo a prendere il numero di targa della grossa enduro. È una moto pulita, intestata a una persona pulita: Giuseppe Mammano, trent'anni, palermitano, consulente finanziario. Il nostro uomo, adesso, dovrebbe diventare lui.

È già difficile pedinare una persona che si muove con un'auto, figuriamoci se si sposta su due ruote. E poi Mammano è attentissimo. Non si ferma agli incroci, passa con il rosso, imbocca vie contro senso. Al massimo rischia qualche multa ma così, per lui, è facile accorgersi se qualcuno lo sta seguendo perché è costretto a fare le sue stesse manovre spericolate. Nei giorni successivi gli investigatori lo perdono in continuazione. Ovviamente si decide di non mollare Tommaso. Si prova a seguirli tutti e due. Ma non emerge nulla di rilevante fino al 22 novembre quando la cosa sembra proprio fatta.

Il Ros non interviene

Alle 18.30 Armillieri e Mammano si incontrano al Foro italico e, il primo con la macchina e il secondo con la moto, imboccano la vicina via Lincoln e si fermano davanti al negozio di Robertino borotalco. Una rapida occhiata in giro e i due entrano.

Sul posto ci sono diversi uomini dei carabinieri, quelli che seguivano Tommaso e quelli che, con le moto, erano dietro a Giuseppe. L'occasione sembra ottimale. Tutti i protagonisti delle nostre indagini si trovano contemporaneamente nello stesso luogo. Anche Mico deve essere lì.

Infatti dopo un'oretta il figlio di don Peppino esce dal negozio ma, caso strano, nemmeno stavolta i militari riescono a bloccarlo, e dire che sono lì in forze. Mico sale sulla moto di Mammano e sparisce con lui per le strade di Palermo.

Questa, almeno, è la versione che mi viene fornita dal Ros. Non ne ho la certezza matematica ma nutro il più che legittimo sospetto che, almeno questa volta, i carabinieri avessero deciso appositamente di lasciarlo andare. Teoricamente non era una brutta idea. L'indagine stava andando bene e nessuno dei soggetti seguiti si era accorto di nulla. Avevamo già isolato almeno tre contatti sicuri: Tommaso, Giuseppe e Robertino; era anche emerso qualche elemento di contorno dalle intercettazioni telefoniche ed erano stati identificati altri personaggi che comunque gravitavano nell'ambiente del latitante. E poi, soprattutto, nel giro di due settimane avevamo già visto fisicamente Mico per ben tre volte. Se si fosse riusciti a seguire il boss madonita ci avrebbe potuto portare dai due latitanti più ricercati del momento, Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella. Forse è proprio questa l'idea del Ros, idea che non mi viene comunicata e che, in quel contesto, mi avrebbe visto decisamente contrario al pari, per quanto mi è sembrato di intuire, dei carabinieri di Cefalù e di quelli del comando provinciale di Palermo che stavano fornendo ausilio logistico all'indagine.

Non ho ancora una grande esperienza nella ricerca dei latitanti di mafia, ma sono perfettamente consapevole che il contatto che abbiamo stabilito con Mico è troppo flebile. Non conosciamo il suo covo, non sappiamo dove va a dormire e dove va a mangiare, abbiamo difficoltà serie a seguire Mammano, il soggetto che «lo porta». So pure che, quando inevitabilmente verrà meno la riservatezza sulla collaborazione di Andrea Randazzo, le piste Armillieri e Raccuglia andranno definitivamente perse, con il rischio che Mico tagli i ponti con tutte le persone collegate ai due. Il caso vuole, peraltro, che nei giorni che seguono Tommaso Armillieri ritorni a vendere biancheria nei mercati, nessuno si faccia più rivedere al negozio di Robertino borotalco e risulti sempre più difficile pedinare Mammano. Vado su tutte le furie e quasi quasi rimpiango di non aver affidato l'indagine alla squadra mobile. Convoco il responsabile del Ros e gli do un termine: «Se non chiude l'indagine entro il mese di novembre, alle otto del mattino del 1° dicembre le ricerche di Farinella passeranno alla polizia».

Fortunatamente nel frattempo c'è stata una novità interessante. Il 18 novembre il capitano Salsano ha convinto a parlare anche un altro fratello di Massimo Capomaccio, Bruno, trentasette anni, più anziano dell'ucciso e più giovane di Michele. Bruno è uno dei tanti imprenditori edili del Palermitano e ha ricevuto alcune confidenze dai suoi colleghi che si sono aggiudicati appalti nella zona delle Madonie. Non ha granché da nascondere e non ha problemi a rivelarmi tutto quello che sa. Tra l'altro mi dice che suo fratello Massimo, per conto di Mico Farinella, quale acconto del pizzo dovuto, aveva già riscosso quindici milioni di lire da certo Lino Lo Scrudato, un imprenditore del Nisseno che stava realizzando alcuni appartamenti a Cefalù per conto di una cooperativa edilizia. Mico aveva richiesto a Lo Scrudato, che si era confidato con Bruno, altri trenta milioni di lire a saldo che doveva consegnargli a Palermo, presso lo studio tecnico di un geometra, tale Vincenzo Catanzaro. Facciamo la visura all'ufficio registro e viene fuori che la ditta individuale di Catanzaro ha sede in via Ernesto Basile al numero 160, proprio in quel palazzo dal quale avevamo visto uscire Mico la sera dell'8 novembre. Non ci vuol molto a tirare le somme e a decidere di intercettare qualche altro telefono.

Il giorno della cattura

Il 29 novembre Lino Lo Scrudato parte da Mussomeli per andare a Palermo. Alle sei del pomeriggio ha un appuntamento presso lo studio del geometra Catanzaro. In una tasca dei pantaloni, assicurate da un paio di elastici, ha trecento banconote da centomila lire.

In via Basile alcuni giovanotti camminano con dei libri sotto il braccio. Sembrano proprio studenti che hanno appena finito le lezioni all'università, dall'altra parte della strada. Ma negli zaini, da cui spuntano mazzi di fotocopie, nascondono pistole Beretta calibro 9 parabellum. La mattina un paio di loro, nella sala ascolto della procura, avevano sentito Lo Scrudato e Catanzaro prendere accordi per vedersi quel pomeriggio. Alle 18, puntualissimo, Lino ferma la sua Fiat 131 targata Caltanissetta in via Basile. Entra nel palazzo al numero 160. Davanti, sul marciapiede, c'è parcheggiata una grossa moto da enduro: una Honda Africa Twin. Il costruttore esce dieci minuti dopo, sale sulla sua 131 e si allontana. La moto è ancora lì, davanti a quel palazzo che farebbe letteralmente rivoltare nella tomba Ernesto Basile, e lì sono ancora gli «studenti universitari». Passeggiano e si scambiano appunti sull'ultima lezione di Economia aziendale o di Scienze delle preparazioni alimentari. Dovranno aspettare ancora un'oretta.

Alle 19.20 dallo studio del geometra Catanzaro escono due persone che ormai i carabinieri del Ros conoscono bene. Dagli zaini spuntano le pistole e prima che Giuseppe Mammano possa prendere le chiavi della moto, gli studenti-carabinieri lo hanno già bloccato e ammanettato così come hanno fatto altri loro colleghi con il suo compagno, con il compare di Massimo Capomaccio, con l'uomo che Giuseppina riconoscerà due giorni dopo in una foto segnaletica: Mico Farinella, reggente del mandamento di San Mauro Castelverde.

In tasca ha trecento banconote da centomila lire fissate con degli elastici. Forse pensava di spenderle per acquistare l'ennesimo Rolex d'oro o per dare un anticipo per una nuova Ferrari. Invece ce le deve consegnare tutte, insieme alla sua libertà.

Chissà cosa ne penserà suo padre Peppino. Lui non sarebbe mai andato personalmente a ritirare il pizzo, troppo imprudente, troppo rischioso. E, soprattutto, troppo poco dignitoso.

copertina libro sabella cacciatore

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