Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.

Con l'improvvisa morte della moglie, Bagarella entra in una sorta di periodo sabbatico: finisce di ordinare e di eseguire omicidi. È la sua forma di lutto. Si è vestito di nero e ha completamente smesso di uccidere. Forse per rispetto alla memoria della sua donna.

L'ultimo omicidio accertato è del 28 aprile. E sì che ne aveva parecchi, di delitti, da eseguire. Ma dal giorno della drammatica scoperta del suicidio della moglie tutti i progetti di morte già messi in cantiere vengono sospesi. E così si salvano (per quello che sappiamo con certezza) diversi mafiosi, un paio di avvocati, un parlamentare e un facoltoso commerciante palermitano già nell'elenco dei condannati per una questione di pizzo.

Dopo un mese di lutto, proprio nei giorni dell'arresto, Bagarella stava tornando a nuova vita, di nuovo operativo. Calvaruso mi descrive una scena apparentemente amena. Un giorno, poco prima della cattura, escono in barca: il boss vuole distrarsi un po'. Una gita domenicale al largo di Termini Imerese, su un piccolo gozzo, con Tony che rema e don Luchino che fuma il sigaro e si gode la splendida giornata di sole primaverile.

A un certo punto, indicando dal mare i paesi sulla costa, tutti compresi nel mandamento di Caccamo, al cui vertice c'è il suo odiato nemico Nino Giuffrè legatissimo a Provenzano, Bagarella comincia a snocciolare i nomi dei relativi abitanti da eliminare nei giorni a venire.

I racconti di Tony Calvaruso e Tullio Cannella, i suoi uomini fidati, ci consegnano un quadro molto circostanziato del potere e del carattere di Bagarella. A cominciare dal suo profilo criminale. È lui il capo militare di tutta Cosa nostra, il mandante di decine e decine di omicidi, il responsabile operativo, con Giuseppe Graviano, degli attentati di Roma, Milano e Firenze. È lui il vero erede di Totò Riina, che, appena arrestato, di fatto gli cede il comando. E tratta alla pari con Bernardo Provenzano. «Il mio compaesano», lo chiama, e sicuramente mal lo sopporta. Doverosamente lo consulta spesso, ma poi fa sempre di testa sua. All'inizio del '95, per esempio, c'è da mettere fine alla faida di Villabate, paese alle porte di Palermo, dove due cosche si fanno la guerra per la leadership del territorio. Da una parte i Di Peri, legati a Pietro Aglieri e Carlo Greco e, quindi, a Provenzano; dall'altra i Montalto, vicinissimi a Salvatore Riina.

Tutto comincia con l'omicidio di Francesco Montalto, figlio di Salvatore, il boss che Riina ha voluto a capo di quel mandamento. Lo chiamano «cane fedele» perché è totalmente nelle mani di Totuccio, con cui si è schierato tradendo e facendo assassinare il suo vecchio capo durante la guerra di mafia degli anni Ottanta.

Ma ora Salvatore Montalto è in carcere; il figlio maggiore, Giuseppe, pure; il secondogenito, Francesco, che ne ha ricevuto l'eredità mafiosa, è stato ucciso. Vincenzo Montalto, fratello di Salvatore e zio del ragazzo assassinato, non sembra avere le doti giuste per gestire un mandamento importante come quello di Villabate. Così Bagarella decide di «metterci mano», di intervenire personalmente.

Prima di farlo manda Giovanni Brusca da Provenzano con un messaggio preciso: «Chi vuole che io risparmi a Villabate?». La risposta dell'anziano capomafia sembra di quelle che si mettono in bocca ai mafiosi nelle fiction. Invece è vera: «Tutti e nessuno» dice 'U zu Binu. Quel non pronunciarsi, a modo suo raffinato e certamente ambiguo, da mafioso di alto livello, serve solo a non scoprire le carte, a non rivelare al cognato di Riina quali siano i «suoi» uomini in quella zona.

Bagarella comincia ugualmente le operazioni di repulisti a Villabate, con lo scopo di mettere un suo uomo, Nino Mangano, al vertice di quella famiglia. Ma il progetto non va a buon fine perché arriviamo prima noi, che arrestiamo lui, Mangano e molti dei suoi sodali.

In quel periodo, prima metà del 1995, Bagarella ha aperto vari fronti di guerra. Non solo a Villabate, ma anche a Palermo e a Corleone, e sta per scatenare un'offensiva a Caccamo e a Termini Imerese. Si è convinto che sia in atto un complotto contro i corleonesi, un progetto per uccidere suo nipote Giovanni, figlio maggiore di Salvatore Riina, a cui è affezionato come fosse figlio suo, e con il quale condivide le passioni sportive per la Ferrari e per il Milan.

Secondo don Luchino, dietro il presunto complotto c'è lo zampino dei cosiddetti «scappati». E con questa scusa, con la scusa di un complotto peraltro mai dimostrato, il cognato di Riina scrive una delle pagine più nere della storia di Cosa nostra. Prima fa ammazzare la famiglia Giammona (moglie, marito e fratello del marito): due agguati nel pieno centro di Corleone, dove non si sparava da circa trent'anni.

L’omicidio di Gian Matteo Sole, ucciso per uno scambio di persona

Poi scatena la strage dei ventenni. Una tragica catena di omicidi barbari e gratuiti. La prima vittima è Marcello Grado, vent'anni, appunto, figlio di Gaetano, detto Tanino occhi celesti. Assieme a Grado viene ammazzato anche Luigi Vullo, che non ha altra colpa se non quella di essere coetaneo e amico di Marcello, e di stare insieme a lui quella mattina. I due ragazzi vengono affiancati da Nino Mangano e da Pino Guastella. I sicari esplodono tre colpi di calibro 38 ciascuno, quasi a bruciapelo. Tutti a segno. Tutti alla testa.

Marcello muore immediatamente, mentre Luigi riesce a resistere per qualche ora. Bagarella è lì sul posto, a bordo della sua Opel Swing celestina. A godersi la scena.

Qualche settimana dopo viene sequestrato e seviziato un altro giovanissimo, Gian Matteo Sole, ventitré anni, totalmente estraneo a qualsiasi logica criminale: un ragazzo tranquillissimo, assolutamente perbene. Gente normale, famiglia di impiegati.

Si tratta di uno scambio di persona, perché quello che i sicari cercano è il fratello di Gian Matteo, un altro amico di Marcello Grado.

Quella di Gian Matteo Sole è una delle tante storie di mafia dimenticate in fretta e mai raccontate. Mai finite sotto i riflettori dei media. Viene sequestrato una mattina di primavera mentre va a lavorare in uno studio tecnico. La sua auto viene bloccata in mezzo alla strada da un'altra più grossa con lampeggiante e finta paletta della polizia. Gian Matteo non capisce. Quattro uomini scendono e lo portano via. Fino agli uffici di un'impresa edile, in viale Strasburgo, dove ad attenderli c'è Bagarella in persona che in quella terribile messinscena si fa chiamare «ispettore».

Gian Matteo viene interrogato e torturato per più di due ore. Non dice nulla per il semplice fatto che non sa nulla. È la persona sbagliata; adesso lo hanno capito anche loro. Ma ormai è troppo tardi. Gli stringono lo stesso la corda al collo e in pochi istanti gli tolgono la vita.

Lo sbattono per terra, a faccia in giù, e mentre lo strangolano Pino Guastella gli salta più volte sulla schiena dicendo cinicamente «Così muore ballando!»: il riferimento è forse a una discoteca di Corleone che Marcello Grado e il fratello di Gian Matteo effettivamente frequentavano. E che frequentavano anche i figli di Riina.

Il corpo del ragazzo viene caricato su una Fiat Croma e abbandonato davanti a una segheria nei pressi di Villagrazia di Carini. A due passi dall'aeroporto di Palermo. La macchina viene data alle fiamme. I Vigili del fuoco trovano il cadavere quasi completamente carbonizzato. Non so se il complotto degli «scappati» esistesse o meno, certo questi ragazzi ne dovevano essere del tutto estranei. L'omicidio di Gian Matteo è uno dei più atroci, perché sfugge anche alla più perversa logica mafiosa.

Ogni tanto ci ripenso: se fossimo arrivati alla cattura di Bagarella un paio di mesi prima, avremmo forse evitato quell'inutile, barbaro sacrificio.

Ma don Luchino si era fissato con questa storia del complotto. Era il suo modo di ragionare da mafioso e lui mafioso lo è da quando ha il bene dell'intelletto. E non ne è affatto pentito. Anzi: la parola «pentito» gli fa orrore, gli fa venire il sangue agli occhi. Questi pentiti, fosse per lui, li avrebbe eliminati con le sue stesse mani, compresi i loro parenti prossimi e lontani.

Domingo Buscetta, ammazzato per il cognome

La primavera del 1995 passa alla cronaca come le «idi di marzo». Giorni terribili di vendette e di sangue, di atroci delitti che portano la firma di Leoluca Bagarella. Un giorno, mentre in compagnia di Tony Calvaruso sta sorseggiando un caffè in via Scobar, a Palermo, sente il barista salutare un avventore: «Buongiorno, signor Buscetta». Il solo sentir pronunciare il cognome del pentito più odiato da Cosa nostra deve avergli mandato il caffè di traverso. E ancora peggio deve sentirsi quando viene a sapere che quel signor Buscetta è proprio uno dei nipoti di don Masino, il noto boss dei due mondi, poi passato dalla parte dello Stato.

Tre giorni dopo Domingo Buscetta, che nella vita non si è mai occupato di mafia e fa il gioielliere, viene ucciso a colpi d'arma da fuoco in via Scobar, davanti al suo negozio. A eseguire materialmente l'inutile delitto sono sempre loro, gli uomini del gruppo di fuoco di Resuttana: Nicola Di Trapani, Pino Guastella e Giusto Di Natale. Bagarella è sempre lì, sull'Opel Swing celestina. A godersi la scena. È fatto così don Luchino. E se pensa che qualcuno lo vuole fregare, diventa una belva. Come quando, da latitante, soggiorna all'Euromare village di Buonfornello, quello delle Torri d'Oriente, e ha il sospetto che il fornitore dell'acqua minerale lucri sul prezzo. Un giorno si fa accompagnare da Calvaruso al supermercato più vicino e ha la prova che cercava: sulla stessa bottiglia d'acqua, c'è una differenza di settanta lire. Sul momento non dice nulla, poi, tornando, in macchina, ordina a Calvaruso di dare una lezione a quel venditore «poco onesto». Tony fatica parecchio per convincerlo che quelle poche lire di differenza sono dovute al servizio a domicilio, e che in fondo si tratta di una cifra irrisoria. Per fortuna lo fa ragionare.

Più volte Calvaruso è riuscito a frenare gli impulsi omicidi del boss. Come quando l'amato nipote, Giovanni Riina, accusa «acidità» di stomaco in seguito a una scorpacciata di arancini di riso! Bagarella si arrabbia, va su tutte le furie, comincia a inveire contro la rosticceria di Palermo che ha venduto le arancine a suo nipote, e decide di uccidere il proprietario. Anche stavolta Tony fatica parecchio a fargli capire che è difficile non avere problemi di stomaco, dopo aver mangiato oltre un chilo di roba fritta...

Qualche volta Calvaruso interviene direttamente con le future, possibili, vittime. Davanti all'appartamento del boss in via Passaggio Mp1, per esempio, c'è un negozietto il cui proprietario apre molto presto la mattina. Poco dopo l'alba è già lì, a tirare su la sua saracinesca. Proprio quando don Luchino esce di casa, in compagnia del suo autista, per svolgere la sua impegnativa attività di capo di Cosa nostra. A Bagarella gli sguardi incuriositi del commerciante sotto casa danno fastidio: «Mi scassa la minchia». E così dà ordine a Calvaruso di organizzare un agguato per eliminarlo.

Per evitare l'ennesima inutile vittima, Tony pensa bene di andare dal proprietario del negozio e dargli un buon consiglio: «Nun m'addumannassi né picchì né pi 'ccomu. Ma mi facissi 'na cortesia: la matina rapissi un pocu cchiù tarduliddu». Non me ne chieda il motivo, ma mi faccia la cortesia di aprire un po' più tardi al mattino. Il commerciante capisce, e da quel giorno sposta il suo orario di apertura, evitando così di incrociare, anche se involontariamente, lo sguardo del capomafia.

La passione per Ivana Spagna

È fatto così don Luchino. Con qualche impulsività di troppo e con momenti di grande passione, mista a tenerezza. Come quando si invaghisce della cantante Ivana Spagna. Quella donna lo fa impazzire «ci facìa acchianari (salire) 'u sangu 'n testa», racconta sempre il suo uomo di fiducia. E deve essere vero, visto che un giorno, tra il serio e il faceto, medita addirittura di rapirla.

Calvaruso mi descrive la scena. È sera e insieme a don Luchino sta guardando il festival di Sanremo in televisione. Durante l'esibizione della cantante, con un sorriso sarcastico, Bagarella gli dice: «Chista mi piace, ci fussi 'i sequestrarla».

Ivana Spagna gli piaceva tanto, e ne ascoltava le canzoni, a casa e in macchina. Non credo proprio, però, che avesse realmente pensato di organizzare un rapimento. In fondo era solo la passione di un fan per l'artista, benché espressa in maniera adeguata al suo modus vivendi. Da quel che risulta, Bagarella è stato sempre fedelissimo alla moglie. Mai uno sgarro, mai un tradimento. Mai un'avventura. È fatto così don Luchino. Capace di vivere con poco, ma anche di pensare a imprese titaniche. Come quando si «rompe le scatole» di tutti quei politici che hanno preso in giro suo cognato Totuccio, Salvatore Riina, e decide di «scendere in campo» personalmente.

copertina libro sabella cacciatore

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