Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.

Mico Farinella è giovane, alto, magro, piace alle donne forse proprio per quel suo fare decisamente indisponente. Ama la bella vita, i grandi alberghi, gli orologi di marca e le macchine veloci, Ferrari e Lamborghini sopra tutte. Ha anche aperto un paio di autosaloni di lusso tra Tusa e Palermo, intestati ovviamente a qualche prestanome.

Conduce un'esistenza vistosa e dispendiosa. I carabinieri della compagnia di Cefalù me lo descrivono arrogante, presuntuoso, a tratti sprezzante, sicuro del suo potere. Si crede intoccabile. La sua famiglia è imparentata con mezza Cosa nostra: una sorella del padre «si è maritata» con uno degli Scaduto di Bagheria; suo cugino Rodolfo, figlio di un'altra sorella di don Peppino, ha sposato la figlia di Benedetto Capizzi, influente uomo d'onore del mandamento di Santa Maria di Gesù; e lui stesso è convolato a giuste nozze con la figlia di Giovambattista Pullara, capofamiglia di Villagrazia di Palermo. Forse anche matrimoni d'amore, ma certamente matrimoni d'interesse, matrimoni di potere. E perché fosse chiara a tutti l'importanza delle nozze nelle dinamiche mafiose Mico Farinella aveva fatto da testimone, da compare d'anello, a Massimo Capomaccio, suo amico e, soprattutto, sua longa manus nel settore degli appalti.

Adesso Massimo è lì, coperto da un pietoso lenzuolo, morto ammazzato su un marciapiede di via Rapisardi. Mico, cui corrisponde l'identikit dell'uomo che Giuseppina aveva visto nascondersi dopo l'omicidio, è latitante da un annetto, da quando Gioacchino La Barbera ha messo nero su bianco che era il reggente del mandamento di Gangi-San Mauro Castelverde.

La latitanza non lo ha cambiato. Si diverte a sfidare la sorte e a dimostrare la sua incoscienza. Frequenta uno dei più forniti autosaloni di Palermo con scintillanti Porsche Carrera e Lotus Elan in vetrina. Proprio accanto c'è l'abitazione di un magistrato del tribunale, vigilata dai carabinieri. A Mico piace appoggiarsi al blindato dell'Arma per il gusto di far intervenire i militari di guardia, solitamente carabinieri ausiliari che non sono in grado di riconoscerlo e si limitano a chiedergli cortesemente di spostarsi da lì. Cosa nostra non gradisce questo suo atteggiamento e, tutto sommato, nemmeno suo padre. Questo figlio scapestrato e incosciente non appare in grado di reggere da solo un mandamento importante come quello delle Madonie, figuriamoci poi se può mantenere i rapporti con i mafiosi di Catania e Caltanissetta. E allora creano una sorta di protettorato. Gli mettono a fianco il capofamiglia di Caltagirone, Pietro Rampulla, il «tecnico», l'artificiere della strage di Capaci. Una sorta di gran visir che gestisca gli affari per conto di un sultano poco adatto e incompetente.

Il magistrato di turno nel giorno dell'omicidio di Massimo Capomaccio è un altro collega, ma una ventina di giorni dopo il procuratore aggiunto assegna anche a me il fascicolo. Venendo da Termini Imerese sono uno dei pochi che conosce la mafia delle Madonie. È uno dei tanti effetti dell'onda lunga causata dalla frantumazione delle inchieste operata nel 1989 dall'ufficio istruzione di Palermo dopo che il Csm aveva chiamato a dirigerlo Antonino Meli, preferendolo a Giovanni Falcone.

Da allora, e praticamente fino al 1993, nessun magistrato palermitano aveva messo il naso in indagini sul mandamento di Gangi-San Mauro Castelverde il cui territorio ricade nel circondario del tribunale di Termini.

I poliziotti sono stati i primi a intervenire sul luogo del delitto e, quindi, le indagini sono affidate alla squadra mobile di Palermo che ha, giustamente, contattato il fratello maggiore dell'ucciso, Michele, un omone di quarant'anni che si muove impacciatamente e sembra a suo agio solo quando può dirigere un cantiere edile o guidare una pala meccanica. Michele fa qualche confidenza ai poliziotti sui rapporti tra suo fratello e Mico Farinella. Ma ha paura, tanta paura. Non intende raccontare alcun episodio specifico, non vuole firmare alcun verbale. Le sue sono solo confidenze generiche, però pretende la verità sulla morte di Massimo.

Inutili i tentativi dei poliziotti di fargli dire di più, di fargli fare qualche nome. E poi di quegli sbirri non si fida più di tanto. Non li conosce bene e loro non conoscono le persone che giravano attorno a suo fratello. Nomi come quelli di Vincenzo Maranto, Samuele Schittino, Carmelo Corriere, Salvatore Caccamisi forse non direbbero nulla agli investigatori della mobile di Palermo.

Non è certo così per il capitano dei carabinieri di Cefalù, Pietro Salsano, che è pratico di quel territorio, che ha sempre indagato sui Farinella, sui Capomaccio e sul loro entourage e che delle Madonie conosce ogni angolo, ogni sasso, ogni cespuglio. E proprio a Salsano Michele decide di rivolgersi. Quell'ufficiale originario del Salento, intelligente e rigoroso, pur se sta dall'altra parte, merita la sua fiducia.

Il capitano dei carabinieri di Cefalù

Una sera d'ottobre Pietro Salsano si presenta a casa mia. Gli faccio due spaghetti con la bottarga di Favignana, quella vera, quella che, grazie a Dio, viene ancora abusivamente preparata pressando e lasciando stagionare le sacche delle uova di tonno rosso tra assi di conifere mediterranee, resinose e profumate, ma ritenute «impure» dalla legge.

Pietro mi dice che ha parlato a lungo con Michele Capomaccio e che ha avuto da lui centinaia di preziose informazioni sugli uomini d'onore delle Madonie. Per quanto ha capito, Michele ha solo bisogno di una piccola spinta per decidere di metter tutto quanto a verbale. Forse è il caso che lo interroghi io personalmente. Lo convoco in ufficio nel pomeriggio del 27 ottobre 1994. Malgrado avessi in passato indagato su di lui per qualche gara di appalto pilotata non lo avevo mai visto in faccia. Più della sua corporatura decisamente titanica, mi colpiscono i suoi occhi, limpidi e sinceri. Gli faccio subito le condoglianze per la morte del fratello e comincio a parlargli del mio lavoro da pm a Termini Imerese, dei tanti fatti, più o meno rilevanti, di cui avevo appreso l'esistenza ma di cui non avevo mai capito la reale portata, il vero significato. Una scusa per fargli capire che, sia pur dall'esterno, conosco il suo mondo e gli uomini che lo popolano. Michele si fida di me e a poco a poco si apre. E mi racconta i retroscena di quelle vicende. Per me è come spalancare finalmente una porta dalla quale ho sempre potuto sbirciare solo attraverso il buco della serratura. Mi dà anche una dritta buona. Mi dice di aver incontrato circa sei mesi prima Mico Farinella, già latitante, in compagnia di un venditore ambulante di biancheria, un certo Tommaso Armillieri, originario di San Mauro Castelverde, che vive a Palermo. Al momento di firmare il verbale però Michele inaspettatamente si tira indietro. Non se la sente, ha

paura. Cerco inutilmente di convincerlo. Gli spiego anche che quelle cose ormai le ha dette davanti a un magistrato e che quindi, che firmi o non firmi, io potrei comunque utilizzare le sue dichiarazioni. Ma è irremovibile.

Dopo Michele è il turno di Andrea Randazzo, socio in affari di Massimo che, sempre su suggerimento del capitano di Cefalù, avevo pure convocato in ufficio. La paura che trapelava dagli occhi di Michele Capomaccio è addirittura poca cosa rispetto a quella di Andrea Randazzo, laureato in Legge e, come Michele e Massimo, anche lui di taglia XXL. Indossa giacca e cravatta su una camicia evidentemente fatta su misura e ha con sé una valigetta che non molla un attimo.

Verbali non firmati e tanta paura

Sono le otto di sera e siamo in autunno inoltrato. La finestra del mio ufficio è aperta per far uscire la cortina nebbiosa prodotta dalle decine di sigarette fumate durante l'interrogatorio precedente, ma Andrea Randazzo suda. Eccome se suda. Il collo della sua camicia è ormai madido e persino il dorso della mano destra, con cui stringe con forza il manico di quella valigetta, luccica per le goccioline prodotte dalla eccessiva traspirazione. Dopo un paio di risposte tecniche sul ruolo che ricopriva nelle società di costruzioni di Massimo Capomaccio, Andrea si alza in piedi. Lascia la valigetta, appoggia entrambe le mani sulla scrivania, e mi dice: «Dottore ho paura, una fottuta paura! È da un mese che non rientro a casa e dormo qua e là. Non ho capito il motivo per cui Massimo è stato ucciso e non so se è per qualcosa che riguarda pure me. La prego, mi aiuti!».

«Certo che posso aiutarla, dottor Randazzo, ma ho bisogno di conoscere tutto quello che sa lei.»

«E io glielo faccio sapere» mi dice risiedendosi. Prende la valigetta, la apre e mi mostra un floppy disk: «Vede, in questo periodo ho preparato un diario di tutto quello che ho fatto con Massimo. Giorno per giorno. Ci ho messo pure le sue confidenze. Il file è in questo dischetto, anche se devo ancora completarlo».

Mi fa allora una strana proposta. Mi dice che non ha il coraggio di verbalizzare quello che sa, ma che il lunedì successivo, ultimato il diario, mi lascerà il floppy a casa sua, dove io, con una perquisizione, potrò trovarlo. Secondo Randazzo in questo modo, quando io, poi, lo dovrò interrogare sul contenuto del dischetto, lui sarà costretto a confermarmelo e, quindi, Cosa nostra non avrà nulla da ridire sul suo comportamento.

Gli faccio presente che, al di là della correttezza formale dell'operazione, per lui sarebbe pur sempre un palliativo. I mafiosi certamente sanno che, in quel momento, io lo sto interrogando, e non ci metterebbero molto a fare due più due. E in ogni caso avrebbe sempre avuto il «dovere», riguardo all'associazione mafiosa, di negare l'evidenza, di disconoscere il contenuto del file, addirittura di sostenere che l'avevamo creato noi per fregarlo.

L'unica cosa da fare è chiudere quel verbale in fretta, fare in modo che, all'esterno, si sappia che il suo interrogatorio è durato qualche decina di minuti e, dunque, che non mi ha detto niente di rilevante. Gli do un paio di giorni per riflettere. Nel frattempo mi impegno a farlo proteggere, discretamente, dai carabinieri. Sono fiducioso perché posso contare su un alleato di prim'ordine: la paura, il terrore del dottor Randazzo.

Ci rivediamo lunedì 31 ottobre, è il ponte dei Morti e il mio ufficio è praticamente deserto. Andrea è stato portato in procura dai carabinieri di Cefalù che sono entrati con una macchina di servizio dall'ingresso laterale, dalle celle del palazzo di Giustizia, da dove passano i detenuti. Nessuno sa niente. Andrea è un fiume in piena. Accetta di collaborare, di essere sottoposto al programma di protezione. È disposto a lasciare la Sicilia, le sue imprese edili, le sue attività di consulenza e a trasferirsi, senza una lira e un lavoro, in qualche paesino del Nord. Pur di salvarsi la vita.

Cominciamo alle nove del mattino e finiamo alle sette di sera. Non è certamente un mafioso. È stato solo l'amico e il «consigliori» di Massimo Capomaccio. Mi dice subito che, il giorno dell'omicidio, Massimo aveva un appuntamento a Palermo proprio con Mico Farinella e poi parla della sua attività. Racconta di intrecci tra banche compiacenti, imprese, enti pubblici. Mi riferisce di gare pilotate, di società intestate a teste di legno, di appalti acquisiti con la forza, di mazzette a politici e funzionari, di noli a freddo e noli a caldo per eludere i divieti di subappalto; e, soprattutto, parla degli uomini d'onore che erano dietro a quegli affari e di pizzo ed estorsioni, tante e capillari.

Si sofferma a lungo sulla Rgl, la Realizzazione grandi lavori, un'impresa su cui si concentravano gli interessi di almeno una decina di famiglie mafiose o presunte tali, dai Pullarà di Villagrazia ai Brusca di San Giuseppe Jato, dal nipote di Bernardo Provenzano, Carmelo Gariffo, ai Bisconti di Belmonte Mezzagno, dai Biancorosso di Castronovo di Sicilia ai Farinella di San Mauro Castelverde, e sull'ultimo appalto che la società si era aggiudicato, il completamento della Palermo-Sciacca, un affare di svariati miliardi di lire finito, ovviamente, in mano a Cosa nostra. C'è da lavorare per un anno intero. Ma prima abbiamo un paio di emergenze: catturare Mico Farinella e scoprire chi ha ucciso Massimo Capomaccio.

Per conoscere il nome del sicario dovremo rimandare di poco più di un anno, quando Tony Calvaruso ci rivelerà che a sparare era stato un certo Michelino Traina, killer alle dipendenze di Giovanni Brusca. Il boss di San Giuseppe Jato pretendeva da Massimo Capomaccio una cinquantina di milioni di lire che quest'ultimo non aveva intenzione o possibilità di fargli avere. Brusca, avendo saputo dell'appuntamento tra Massimo e Mico Farinella, il quale da par suo aveva fatto ben poco per proteggere il suo compare d'anello, aveva mandato Michelino a eseguire il delitto e Mico era stato costretto a nascondersi dietro le macchine in sosta in via Rapisardi.

Riguardo alla latitanza del «sultano» delle Madonie, anche Andrea Randazzo mi conferma quanto mi aveva detto Michele Capomaccio su Tommaso Armillieri, il venditore di biancheria, e mi fa un altro nome: Robertino borotalco, all'anagrafe Alberto Raccuglia, gestore di un negozio di scarpe a Palermo, in via Lincoln, dove Mico ogni tanto si recava. Non sono certo poche due indicazioni secche per cercare un latitante ma, prima di mettermi al lavoro,ma ho un problema diplomatico da risolvere.

copertina libro sabella cacciatore

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