Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.

Arrivo a Palermo nel 1993, dopo quattro anni passati alla vicina procura della Repubblica di Termini Imerese. L'anno si apre con la cattura di Totò Riina, «capo dei capi» di Cosa nostra, e con l'insediamento al vertice della procura palermitana di Gian Carlo Caselli. Comincia una nuova era nella lotta alla mafia.

Proprio qualche mese dopo l'arresto di Riina, Cosa nostra porta la sua sfida nel cuore dello Stato. Il tritolo mafioso esplode a Firenze, a Roma, a Milano. I corleonesi non si arrendono, anzi, rilanciano. Bisogna fermarli e, per farlo, occorre in primo luogo arrestare i latitanti. La lista è lunghissima. Sono tutti cosiddetti «pezzi da novanta» e tutti introvabili. Controllano il territorio metro per metro, sono protetti da una rete di centinaia e centinaia di persone, maneggiano armi ed esplosivi. Sono il cuore e l'anima di Cosa nostra.

Scovare i latitanti diventa l'obiettivo numero uno della procura di Caselli: sembra un'impresa ardua, disperata. Nonostante anni e anni di processi e condanne, i capimafia sono quasi tutti liberi. Liberi di ammazzare, di far saltare in aria magistrati, poliziotti e carabinieri, di devastare il patrimonio artistico italiano, di violentare il territorio dello Stato, di imporre il loro dominio assoluto sull'economia siciliana.

Ma il momento è estremamente favorevole. È un momento in cui la società civile, messa a dura prova dalle stragi di Capaci e via d'Amelio, si è finalmente schierata dalla parte giusta. È un momento in cui è rinata «la speranza dei palermitani onesti». È un momento in cui da Roma giungono segnali forti e, finalmente, inequivocabili. E i risultati arrivano.

Un lungo elenco di boss da catturare

Decine e decine di latitanti vengono, come si dice, «assicurati alla giustizia». Cifre da record.

L'elenco dei mafiosi irreperibili che ho contribuito a catturare è piuttosto lungo e pesante.

«Capimandamento» come Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Nino Mangano, Pietro Aglieri, Mico Farinella, Nicola Di Trapani, Vito Vitale. Componenti di gruppi di fuoco e responsabili di stragi e decine di omicidi, come Fifetto Cannella, Pino Guastella, Pietro Romeo, Francesco Giuliano, Cosimo Lo Nigro, Peppuccio Barranca, Enzo Salvatore Brusca, Giovanni Ciaramitaro. E poi tantissimi influenti «uomini d'onore» come Carlo Greco, Pinuzzu La Mattina, Natale Gambino, Calogero Battista Passalacqua, Bernardo Bommarito, Biagio Montalbano, Paolo Alfano, Melo Zanca, Salvatore Gallina...

Risultati mai più raggiunti dopo. Eppure quegli anni, gli anni della procura di Caselli, vengono malevolmente ricordati solo per i processi ai politici o, peggio, per i cosiddetti «processi politici».

Per me e per gli altri colleghi, invece, quel periodo ha segnato la rivincita delle istituzioni sullo strapotere della mafia. Il momento in cui, dopo tanti anni, lo Stato si riappropriava almeno temporaneamente del suo territorio: Cosa nostra veniva messa in ginocchio e, soprattutto, crollava definitivamente il mito dell'inafferrabilità dei boss. Uno dopo l'altro finivano in manette.

Ogni indagine ha la sua storia. Ci sono investigazioni basate su intercettazioni ambientali, altre su pedinamenti o sofisticate tecnologie. Alcune partono da una soffiata e altre sono invece il frutto di un'idea originale, di un guizzo, di un'intuizione. La cosa fondamentale è capire il modo in cui il latitante si muove, quali sono i suoi legami, i suoi contatti, pensare come lui, entrare nei suoi panni, quasi immedesimarsi.

E per farlo bene è necessario anche saper parlare la sua lingua e quella delle persone che gli stanno

vicino. Cogliere le sfumature delle espressioni, collocare ogni frase, ogni parola nel giusto contesto. Il dialetto dell'Isola è spesso subdolo. Per esempio: in certe zone, l'imperativo moviti può significare muoviti ma anche stai fermo, a seconda del tono della voce usato. Oppure ancora: in dialetto non esiste il verbo al futuro. Forse sarà a causa del nostro atavico fatalismo...

Solo un siciliano può capire fino in fondo un altro siciliano, senza interpreti o traduttori. Un mio collega d'origine milanese era sul punto di arrestare per estorsione aggravata il capo di un ufficio tecnico comunale che stavamo intercettando per una storia di licenze edilizie. Ascoltando le registrazioni si era convinto che si trattasse di un collettore del «pizzo», equivocando sulle pressanti richieste di denaro che il funzionario faceva ai commercianti del suo paese. Sono riuscito a fermarlo appena in tempo e ho faticato parecchio per fargli capire che il «suo esattore» era, invece, molto semplicemente, il presidente del comitato per i festeggiamenti in onore di sant'Anna, la patrona locale: stava solo raccogliendo i fondi per luminarie, fuochi d'artificio e cantanti.

Sicuramente è molto più semplice lavorare su un latitante che si sposta in contesti cittadini o comunque popolosi, in cui una faccia nuova desta minore attenzione. Nei paesi, invece, o in certi quartieri di Palermo, tutto è più complicato. Sono luoghi in cui spesso lo Stato non può arrivare. Ci si deve fermare, occorre restare fuori e attendere. Si può solo aspettare una mossa falsa. Sapendo che, comunque, non si passa inosservati.

Il latitante si muove con molta circospezione. Conosce e controlla ogni palmo del «suo» territorio. Gioca in casa.

L'esempio emblematico per me è stata la cattura di Vito Vitale, il boss di Partinico. Difficile, perché Vitale prediligeva i paesi dove investigare diventa particolarmente complicato: il forestiero viene notato immediatamente, la presenza di un estraneo profuma di sbirro.

Sul territorio esistono decine di «sentinelle». Dal vecchio contadino al ragazzino di undici anni, dal barbiere al calzolaio, dal barista al venditore di càlia e simenza: sono tutte vedette, piccole vedette di mafia.

La notizia che c'è uno sconosciuto in giro passa di bocca in bocca in tempo reale. E arriva sempre a chi deve arrivare.

Mille occhi a cui non sfugge niente. Occhi particolarmente attenti a riconoscere lo sbirro, anche se è in borghese, anche se è camuffato. Quando arriva, lo strànio viene immediatamente schedato, registrato e segnalato. E il gioco può diventare pericoloso, perché da cacciatori si rischia di diventare cacciati.

Occorre essere molto prudenti, muoversi poco alla volta e con passi felpati. Non esporsi mai. Lavorare sottovento affinché la preda non senta l'odore del cacciatore. Anche nei pedinamenti bisogna fare molta attenzione e agire di fantasia: la classica coppietta della polizia, un uomo e una donna che magari fanno finta di baciarsi, viene subito individuata. O peggio ancora due uomini in macchina che sfogliano distrattamente un giornale. L'odore di sbirro lo sentono da lontano. E «loro» non sbagliano quasi mai.

Molti carabinieri in quegli anni, per esempio, sono costretti a uscire in servizio con le loro macchine

private, rischiando anche in prima persona. Le autocivetta dell'Arma, le Fiat Uno che hanno in dotazione, infatti, presentano un banalissimo dettaglio che le rende riconoscibili agli occhi dei mafiosi: sono le uniche senza poggiatesta. Forse per abbassare i prezzi di produzione e aggiudicarsi la fornitura, la fabbrica torinese non le ha dotate di questo optional che costava poche migliaia di lire in più e che tutti gli acquirenti normali facevano montare sulla propria autovettura. Tante volte mi sono sentito dire da pentiti e mafiosi: «Dutturi, l'ho visto subito che erano sbirri. Avevano la macchina senza poggiatesta».

Ma il lavoro sottovento deve cominciare ancor prima. Già quando inizi a subodorare la pista.

Gli uomini d'onore hanno occhi e orecchie ovunque. Anche nel palazzo di Giustizia. Giovanni Falcone e Rocco Chinnici, pur lavorando in quella sorta di bunker che era l'ufficio istruzione di Palermo, non si sentivano mai sicuri. Quando avevano qualche notizia importante da comunicarsi, lo facevano in ascensore e con pochissime parole. E, nei miei anni a Palermo, l'atmosfera non è certo diversa.

Basta il susseguirsi di riunioni nella stanza di questo o di quel magistrato per mettere sul chi vive gli avvocati che difendono i mafiosi.

Ogni mossa del pool antimafia viene scrutata, passata ai raggi X. E ritrasmessa ai boss. Da figlio di due avvocati, mi dispiace prendere atto del ruolo che spesso hanno alcuni legali di mafiosi. Ce lo raccontano senza remore due pentiti di rilievo come Calogero Ganci e Francesco Paolo Anzelmo: in un paio di occasioni erano sfuggiti in extremis all'arresto proprio perché avvertiti dai loro difensori. No, nessuna talpa o fuga di notizie. Agli avvocati era bastato notare carrelli pieni di blocchi di fotocopie che, dall'ufficio del gip al piano terra, venivano portati al secondo piano, in procura. Non potevano che contenere ordinanze di custodia cautelare da eseguire. Per legge ne occorrono quattro copie: una originale, una da consegnare al destinatario, una per il difensore e la quarta per il carcere. Quei carrelli, dunque, sono la prova inequivocabile di un blitz imminente.

Spesso, per evitare buchi nell'acqua, ci siamo fatti consegnare dal gip un solo provvedimento e abbiamo costretto i cancellieri del tribunale ad autenticare le copie in una caserma dei carabinieri o in questura.

Per sottrarci agli sguardi indiscreti ci riunivamo in qualche ristorante o in uffici che altre amministrazioni dello Stato ci mettevano a disposizione. A volte preferivamo addirittura parlare per telefono potendo contare sugli apparecchi «cripto» di cui il ministero dell'Interno ci aveva dotati, a casa e in ufficio.

Era una vera e propria guerra con tanto di spionaggio e controspionaggio e, come si usa dire, «in guerra e in amore tutto è permesso». Per questo anch'io avevo deciso di usare il metodo, poco sportivo ma obiettivamente efficace, dei bracconieri: quello della terra bruciata.

Una strategia che tante volte si è rivelata vincente. Si deve fare il vuoto attorno agli uomini d'onore oggetto delle indagini. Interrompere la loro ragnatela di protezione lasciando i due o tre fili a noi noti e, con la pazienza del ragno, seguire solo quelli.

Tante volte abbiamo messo insieme tutti i dati di cui eravamo in possesso, anche rinunciando a qualche spunto investigativo, al solo fine di eseguire provvedimenti di custodia cautelare che consentissero di neutralizzare alcuni contatti, sicuri o solo probabili, del latitante.

Il ritorno dei pentiti

[…] L'arresto di Giovanni Brusca, l'esecutore materiale della strage di Capaci, per esempio. Nei mesi precedenti la sua cattura gli abbiamo praticamente «bruciato» tutti gli appoggi. È stato costretto a correre ad Agrigento perché ormai non aveva più protezioni: non aveva più nessuno su cui contare in casa sua a San Giuseppe Jato. Nessuno ad Altofonte, nessuno a Borgetto, nessuno a San Cipirello. I boss non lasciano quasi mai il loro territorio: «La presenza è potenza» soleva dire Bagarella. Brusca si è allontanato solo perché gli abbiamo «tagliato i fili». Lo stesso è accaduto, per esempio, nel 1997 quando ci siamo trovati davanti al caso di alcuni collaboratori di giustizia che avevano ripreso a delinquere, vicenda passata alla cronaca come «il ritorno dei pentiti». C'era il forte sospetto che Balduccio Di Maggio, Santino Di Matteo e Gioacchino La Barbera, tre fra i più preziosi collaboratori di giustizia, mentre erano sottoposti al programma di protezione si fossero resi responsabili di alcuni delitti nel mandamento di San Giuseppe Jato.

Non sapevamo che pesci pigliare. Non volevamo credere alla possibilità che i tre avessero commesso addirittura degli omicidi. Ma d'altro canto l'ipotesi investigativa sembrava fondata. Così come ugualmente fondata ci sembrava la possibilità che dietro questa storia ci fosse lo zampino di Giovanni Brusca che, finito in carcere, intendeva delegittimare quei pentiti.

Nel dubbio procediamo con l'operazione «terra bruciata». Arrestiamo contemporaneamente tutti i soggetti che riteniamo vicini ai tre collaboratori e a Brusca, e per i quali, ovviamente, abbiamo elementi di prova sufficienti. Così cerchiamo di isolare i due presunti gruppi contendenti. L'operazione va a buon fine. Persi i loro contatti sul territorio, i tre sono costretti a venire allo scoperto.

Le microspie collocate nelle macchine di La Barbera e Di Maggio iniziano a registrare conversazioni interessanti. Di Matteo si sposta in continuazione dalla località protetta e uno dei fermati, tale Giuseppe Maniscalco, comincia subito a collaborare: ci rivela come i tre, approfittando dell'arresto di Brusca, avessero, di fatto, cercato di riprendere il controllo del mandamento di San Giuseppe Jato.

Ho utilizzato spesso la tattica della «terra bruciata». Tutte le volte che i metodi tradizionali non davano i risultati sperati. Era la mia ultima carta e la giocavo solo quando era indispensabile, perché estremamente dispendiosa. Per arrestare le persone che giravano intorno all'oggetto delle indagini bisognava tirare fuori le prove già raccolte, rivelare l'esistenza di intercettazioni telefoniche o ambientali, buttare alle ortiche mesi di pedinamenti. E tutto solo per togliere dalla circolazione qualche personaggio apparentemente minore.

Se la strategia falliva si doveva ricominciare tutto da capo. Come nel caso delle ricerche di Nino Giuffrè, capomandamento di Caccamo dove abbiamo «tagliato» i fili sbagliati e abbiamo fallito. Tante altre volte, però, l'esito è stato positivo. Questo sistema ci ha permesso di arrestare molti latitanti e di interrompere lunghe catene di morte.

Come è successo, per esempio, nel caso della faida di Misilmeri.

Non dovrei essere molto orgoglioso di questa indagine che ho condotto applicando in maniera scientifica e pressoché perfetta il metodo sleale dei bracconieri, ma i risultati sono stati eccezionali.

Da diversi anni non si riusciva a comprendere cosa stesse accadendo in quel territorio compreso tra Misilmeri, Marineo e Belmonte Mezzagno, a una quindicina di chilometri da Palermo. Morti ammazzati, persone scomparse nel nulla, intere famiglie decimate. E nessun colpevole. Decido di giocare il tutto per tutto. Ottengo un provvedimento di custodia cautelare a carico dei soggetti legati a un certo gruppo mafioso e, di proposito, ne lascio libero solo uno: Cosimo Lo Forte, ventotto anni, figlio adottivo di un uomo d'onore di Misilmeri inghiottito dalla lupara bianca due anni prima. Nel frattempo Michele Facciorusso, il bravissimo capitano dei carabinieri della compagnia di Misilmeri, tiene il giovanotto sotto controllo.

Ma faccio ancora di peggio. Nel provvedimento di custodia cautelare inserisco indiscrezioni, mezze parole, allusioni da cui si poteva dedurre che la sorte di Cosimo era segnata.

Appena quattro giorni dopo Lo Forte abbocca: si presenta spontaneamente dal capitano dei carabinieri e poi nel mio ufficio. Ha paura, non ha più amici liberi, nessuno che lo protegga. Gli ho fatto terra bruciata intorno: ha capito che la prossima vittima non può che essere lui. Così decide di collaborare. Durante il suo primo interrogatorio mi indica il posto dove è nascosto l'arsenale della cosca. Sospendo brevemente il verbale, mando Michele Facciorusso a fare il sopralluogo e continuo a interrogare il «picciotto» che mi racconta le dinamiche che avevano determinato quella lunga serie di morti ammazzati a Misilmeri e dintorni. Dopo poco più di un'ora Michele mi chiama al telefono: «L'ho trovato. È incredibile! Devi venire a vedere».

I carabinieri di Misilmeri avevano scoperto decine e decine di fucili, pistole, mitragliette e kalashnikov, sepolti in una serra abbandonata. Migliaia di proiettili, alcuni chili di tritolo, esplosivo da cava, nitrato d'ammonio, bombe a mano, granate anticarro, un lanciarazzi con decine di munizioni e cariche supplementari di lancio e perfino un lanciamissili Rpg 18 di produzione sovietica.

La stessa sera, grazie alle dichiarazioni di Cosimo Lo Forte, eseguiamo una dozzina di fermi e, da quel momento e per almeno un paio d'anni, nessun cronista di «nera» si è più dovuto occupare di quella zona. Temporaneamente pacificata. Ma perché le indagini diano i frutti sperati è fondamentale che «i cacciatori» vadano tutti nella stessa direzione, che non si sovrappongano, che non si intralcino a vicenda.

copertina libro sabella cacciatore

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