Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.

«Buongiorno, signor Bagarella. Come sta?» «Come devo stare, dottore? Tra queste quattro mura.»

È il luglio del 1998. Leoluca Bagarella è di fronte a me, nel carcere di Parma. Un po' meno arrogante di come l'avevo visto tre anni prima, il giorno del suo arresto.

Fisico tarchiato ma possente, difficilmente riesce a stare fermo, e quando lo fa sono i suoi occhi, piccoli e nerissimi, a muoversi nervosamente, a scrutare ogni cosa. Ha il solito look casual: tuta da ginnastica e scarpe da tennis. Come se fosse sempre pronto alla corsa, alla fuga. All'evasione.

Sono venuto a interrogarlo per un reato minore: minaccia aggravata, pena massima prevista fino a un anno di reclusione. Una bazzecola per uno come lui che di ergastoli definitivi ne ha già parecchi.

L'episodio era avvenuto durante un'udienza del processo per il sequestro e l'omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo.

In un drammatico confronto a distanza Bagarella aveva fatto uno strano riferimento al figlio del suo ex autista, Tony Calvaruso, il titolare del negozio di corso Tukory che, dopo essere stato arrestato, aveva deciso di collaborare e proprio quel giorno stava deponendo in aula. «Ricordati di Spizieddu» aveva urlato don Luchino dalla sua gabbia nel bunker dell'Ucciardone. Spizieddu, peperino, era il nomignolo con cui il boss corleonese chiamava il figlio di Calvaruso. La frase era suonata come un avvertimento. Da qui l'accusa di minaccia aggravata. L'avvocato di Bagarella non è venuto. Inutile arrivare fino in Emilia per un interrogatorio di routine. «Dottore, oggi avevo intenzione di avvalermi della facoltà di non rispondere, ma visto che c'è lei e che si è fatto tutto questo viaggio...»

Sono strani i mafiosi. Fino a quel momento Bagarella non aveva mai parlato con nessun magistrato.

Adesso decideva di farlo proprio con me, con uno dei pubblici ministeri responsabili della sua cattura e, soprattutto, con quello che aveva fatto parlare i suoi fedelissimi e che conosceva, ormai, ogni più piccolo particolare della sua vita da mafioso.

Apro il mio portatile e comincio a scrivere. Normalmente gli interrogatori li facevo da solo, senza segretario. Verbalizzavo io ed ero velocissimo. Avevo tantissime macro e voci di correzione automatica memorizzate nel mio Word. Digitavo cn e sul video appariva Cosa nostra, già in corsivo, scrivevo uo e diventava uomo d'onore, oppure sgj per San Giuseppe Jato, cr per Corleone, bc per Brusca, md per Matteo Messina Denaro, il boss di Trapani, bg, appunto, per Bagarella. L'interrogatorio dura poche battute. Giusto il tempo per Bagarella di spiegarmi che non intendeva minacciare di morte il figlio di Calvaruso, ma solo fargli tornare alla mente una sera in cui aveva tenuto il vivace bambino sulle ginocchia e ci aveva giocato, un banale episodio che il pentito, secondo don Luchino, sembrava aver dimenticato. Archivierò tutto. Del resto nessuno aveva interesse a processarlo per una semplice minaccia.

Un risultato però l'ho ottenuto. Bagarella ha risposto alle mie domande e ha ammesso di conoscere bene Calvaruso, elemento di prova che poteva esserci utile in altri dibattimenti. In quegli anni trascorsi in carcere don Luchino aveva continuato a tenere alto il suo profilo da padrino corleonese. E d'altra parte il suo è un pedigree di tutto rispetto e affonda le proprie radici nella Cosa nostra post rurale, quella degli anni Sessanta e Settanta, la mafia degli appalti e del traffico internazionale di eroina. Suo fratello maggiore, Calogero, era stato uno dei soci fondatori, se così si può dire, dei corleonesi. Era uno dei quattro fedelissimi del primo capomafia storico della zona, il medico Michele Navarra. Gli altri erano Luciano Leggio, Bernardo Provenzano e Salvatore Riina: insomma una specie di poker d'assi. Erano gli anni Sessanta e i quattro giovani leoni volevano mano libera. Così non avevano esitato a uccidere il vecchio Navarra per prenderne il posto. Forse non è un caso che la storia dei corleonesi nasca proprio con un tradimento.

L’amore per Vincenzina 

Il giovane Leoluca cresce dunque a «pane e mafia», e quando Salvatore Riina sposa sua sorella Ninetta, diventa anche cognato del Capo dei capi, di Totuccio, come lo chiamavano gli amici. Bagarella, che ha grande voglia di farsi strada in Cosa nostra e sa quanto contino i rapporti di sangue, incastona un'altra parentela di rango. Siamo sul finire degli anni Settanta quando s'innamora perdutamente di Vincenzina Marchese, bella fimmina della famiglia di Corso dei Mille, una cosca di killer e trafficanti tra le più antiche e spietate di Palermo.

Il capofamiglia, Filippo Marchese detto Milinciana (melanzana), zio di Vincenzina, scannava la gente con le sue mani nella camera della morte di Sant'Erasmo, sul lungomare di Palermo. Si dice che chiamasse per nome e cognome la vittima, un attimo prima di eseguire il delitto, e aggiungesse la frase, ormai tristemente nota: ca' finisci la to' storia, qui finisce la tua storia. Dei tre fratelli di Vincenzina, Nino, Giuseppe e Gregorio, solo l'ultimo è libero.

Ma Vincenzina è, come si dice, pura come un giglio. Quella tra lei e Leoluca è una grande, vera, tragica storia d'amore.

Matrimonio all'inizio degli anni Novanta. Lui è appena stato scarcerato grazie ai soliti cavilli giudiziari. Matrimonio d'amore ma anche matrimonio di mafia, con tutti i suoi sfarzi un po' pacchiani. Nozze come quelle di Michael Corleone nel Padrino. Come colonna sonora del filmino della cerimonia Bagarella vuole metterci proprio la musica del capolavoro di Francis Ford Coppola, sua pellicola culto al punto che, nei primi tempi della sua latitanza, si faceva chiamare proprio don Vito. Banchetto a Villa Igea, uno dei più lussuosi e affascinanti alberghi d'Italia. Leoluca, un figurino, nel suo mezzo tight; bellissima Vincenzina, con il lungo velo bianco che il marito premuroso le sorregge, mentre scende da una sfavillante limousine. Centinaia di invitati: c'è la folla delle grandi occasioni. Unici assenti, ma giustificati, i latitanti, che da lì a poco potranno annoverare tra le proprie fila anche lo sposo. Servizio d'ordine impeccabile affidato ai picciotti di Corso dei Mille che respingono «con educazione», si racconta, giornalisti e fotografi. Tutto rigorosamente ripreso dalle telecamere della polizia.

Da quel giorno i due sono inseparabili. Lei lo segue fedele durante tutta la latitanza. Se la ricordano anche nel condominio di via Passaggio Mp1. Una donna bella, riservatissima, che non usciva quasi mai di casa e che, da un giorno con l'altro, non si era più vista. Di Vincenzina si erano misteriosamente perse le tracce. Durante la perquisizione nel covo troviamo uno strano biglietto scritto a mano: «mio marito è l'uomo migliore del mondo e si merita una statua d'oro...». La grafia però è dello stesso Bagarella. Scopriremo in seguito che l'originale scritto da Vincenzina era stato consegnato ai suoi familiari e che don Luchino lo aveva ricopiato personalmente.

C'è anche una fotografia di lei, molto bella, col velo da sposa, in una cornice d'argento. Davanti alla foto un vaso con fiori freschi. Particolari che, insieme alla fede della moglie che Bagarella porta al collo al momento dell'arresto, ci fanno ritenere che Vincenzina sia morta. Saranno poi i pentiti a confermare il nostro sospetto: un mese prima della cattura del marito, infatti, la donna si è suicidata.

Sono certo che Bagarella non abbia alcuna responsabilità materiale nella morte di sua moglie. E la mia convinzione è pienamente confermata dalle indagini svolte e dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.

La morte del piccolo Giuseppe Di Matteo la sconvolge 

È il dramma di Vincenzina, una donna che ha respirato mafia fin da bambina. Destino crudele, il suo. Moglie di Bagarella e sorella di quel Pino Marchese, che nel frattempo è passato dalla parte dello Stato. Il primo «corleonese» pentito, il collaboratore di giustizia più odiato dalla famiglia Riina. Vincenzina forse non ha retto al peso di questo doppio ruolo e si è tolta la vita. Si è impiccata in casa. Proprio in quel covo di via Passaggio Mp1, dopo un lungo periodo di profonda depressione. Uccisa dalla solitudine. Come sua cognata Ninetta, la moglie di Riina, Vincenzina ha seguito il marito in tutta la latitanza. Mai un dubbio su questo uomo che ama e da cui è ricambiata pienamente. Un solo cruccio: non aver avuto figli. Due volte la natura le ha detto di no, e lei non se ne dà pace. Comunque è ancora giovane, e può coltivare il suo desiderio di maternità. È rimasta profondamente turbata, come gran parte del popolo di Cosa nostra, dalla storia del piccolo Giuseppe Di Matteo. Si è fatta un'idea: pensa che non avere figli sia una sorta di castigo di Dio. Una punizione per il rapimento di quel ragazzino innocente eseguito dagli uomini di suo marito. Il boss giura alla moglie che il bambino non è stato ucciso. E in effetti, in quella data, dice la verità. Ma lei non gli crede. E, tra mille tormenti, si toglie la vita.

Il pomeriggio che la trova morta, appesa a quella corda, Bagarella vive un doppio dramma. La scomparsa, tragica, della compagna della sua vita e l'impossibilità di darle una degna sepoltura. Distinguendo per un momento l'uomo dal mafioso, don Luchino vive una vicenda dolorosissima in assoluta solitudine. Il boss fa una telefonata, in lacrime, al fedele Calvaruso. Chiede aiuto, lo prega di raggiungerlo. Insieme, vestono e sistemano alla meno peggio il cadavere della donna e lo portano fuori. Vincenzina è accompagnata a braccia, sorretta dai due uomini, come se fosse stata colta da un malore. È notte. Nessuno li vede. Il cadavere viene caricato in macchina e trasportato in un ufficio dell'impresa di costruzioni di Giusto Di Natale, uno dei fedelissimi di Bagarella. Lo mettono in una bara che hanno ordinato per telefono a un'impresa funebre, potendo certamente contare sulla sua «riservatezza».

Seppellita di notte in un terreno d’amici

Il suo ultimo viaggio Vincenzina lo fa verso la collina di Baida, a pochi chilometri da Palermo, dove viene seppellita in un terreno di proprietà della famiglia Di Natale. Ma il suo calvario non è ancora concluso; quel cadavere «scotta».

L'ho cercata a lungo, non tanto per ragioni investigative o processuali, quanto per un fatto di umanità: avrei voluto fosse tumulata in un cimitero, in terra consacrata. Ma nessuno dei collaboratori di giustizia sapeva dove fosse. Solo Tony Calvaruso, alla fine di un interrogatorio, si ricorda quasi per caso di un particolare: di uno schizzo del luogo dove era stata seppellita la donna, che gli aveva tracciato lo stesso Bagarella. Un giardino che il boss aveva fatto appositamente recintare con paletti di castagno. Nella sala colloqui del carcere di Paliano, il pentito mi rifà, su un pezzo di carta, lo stesso disegno.

Ne faccio una copia che consegno alla Dia, cui chiedo di individuare tutti i terreni a disposizione delle persone che erano presenti la sera di quella sorta di funerale: oltre a Giusto Di Natale, Nicola Di Trapani, reggente del mandamento di Resuttana e Pino Guastella, il killer prediletto di don Luchino. Si doveva per forza trattare di una proprietà «pulita». Bagarella non poteva rischiare un'eventuale confisca di quella che era diventata la tomba della sua Vincenzina.

E guarda caso, si scopre che la famiglia Di Natale possiede da generazioni un fondo che, visto dall'alto, fotografato da un elicottero, corrisponde perfettamente allo schizzo fatto da Calvaruso, compresi i paletti di castagno, nuovi, a sostegno della recinzione.

Ma arriviamo in ritardo. Qualche giorno prima infatti, preoccupati della collaborazione di Calvaruso, i mafiosi hanno provveduto a spostare le povere spoglie in un altro luogo che non ho mai individuato. Nel terreno di Baida troviamo solo una pietra tombale di granito grezzo, senza scritte; e della terra smossa.

Datare con esattezza la morte di Vincenzina Marchese è stato piuttosto semplice. Tullio Cannella - il socio di Calvaruso che avevo arrestato dopo la cattura di Bagarella e che aveva deciso di collaborare – mi ha raccontato di non averla più vista dal 13 maggio 1995. È possibile dunque che la donna si sia tolta la vita nel tardo pomeriggio del giorno prima. Proprio la notte tra il 12 e il 13 maggio, Calvaruso telefona a Cannella e con voce emozionata gli dice: «Tullio mio, non c'è pietà nemmeno per le proprie carni!». Una frase enigmatica, che poi abbiamo capito, si riferiva alle modalità di trasporto del cadavere che Calvaruso riteneva forse umilianti per la povera donna.

Ho indagato a fondo sul mistero della morte di Vincenzina, ma nessun elemento mi fa pensare a qualcosa di diverso dal suicidio. Il suo è il dramma di una donna vissuta e morta in latitanza. Una vera storia d'amore finita in tragedia. Punto e basta.

Nell'album di Cosa nostra, quella tra Bagarella e Vincenzina è una delle poche autentiche love story.

Leoluca stravede per la moglie, ed è un marito affettuosissimo. Raccontano i pentiti: «Quando Vincenzina telefonava, dicendo che aveva calato la pasta, don Luchino interrompeva ogni attività e correva a casa». Ma le attività di Bagarella erano un po' particolari: poteva quindi accadere, come è accaduto, che il boss sospendesse lo strangolamento di qualcuno, andasse a casa a mangiare, e poi tornasse. A tirare la corda al collo di quel disgraziato.

copertina libro sabella cacciatore

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