Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, parliamo di Pasquale Condello, killer efficientissimo durante la prima e la seconda guerra di 'Ndrangheta e che ha ispirato il libro “Il Supremo. Ascesa e caduta di un comandante del male”, di Andrea Galli e Giuseppe Lumia.

Condello subisce dal carcere, e mai come ora si sente prigioniero.

Nelle strade di Reggio Calabria si propaga l’incessante tintinnio di bossoli d’ogni calibro.

La crescita esponenziale di due fenomeni è termometro del momento: aumentano le immatricolazioni di macchine blindate e di motociclette di grossa cilindrata. Sulle prime – grosse berline dalle tinte ministeriali, dai vetri verdognoli e targate Roma oppure Milano, viaggiano i boss che temono per la loro vita. Sulle seconde, soprattutto Suzuki GSX e Yamaha FZR, girano i ventenni. Nelle tasche, rotoli di banconote e una delega in bianco per ammazzare chiunque capiti a tiro.

Una caccia libera, indiscriminata, fuori da qualsiasi schema geografico e temporale.

Cadaveri e funerali. A ripetizione.

La seconda guerra di ’ndrangheta supera la prima.

La questura elabora un prospetto statistico e lo invia ai magistrati; dentro ci sono i grandi numeri di Reggio Calabria.

Anno 1986: 105 omicidi, 115 tentati omicidi.

Anno 1987: 156 omicidi, 120 tentati omicidi.

Dati ufficiali.

Ma anche dati parziali. La polizia può conteggiare soltanto gli eventi dei quali è venuta a conoscenza dopo la segnalazione di una telefonata anonima o attraverso una pattuglia che transitava per caso in prossimità della scena del crimine; di altri episodi, molti altri, non si ha notizia. Del resto, i destinatari degli attentati di una guerra di mafia spesso sono mafiosi oppure loro parenti stretti. Tradotto: non vanno in caserma a denunciare, convocano a domicilio medici amici, ben consapevoli che il ritardo nei soccorsi, le cure prestate al di fuori di una sala operatoria, l’assenza di medicinali e strumenti adeguati riducano drasticamente le possibilità di salvezza. Non importa, la guerre c’est la guerre. Si deve tacere, a meno di non voler commettere infamia, che sarebbe peggio di morire. Lo sa bene Imerti, che dopo l’attentato subito in via Riviera, dinanzi all’incalzare di magistrati e carabinieri aveva continuato a tacere, rimediando il trasferimento in prigione pur essendo stato lui la vittima dell’autobomba. Con le istituzioni e i suoi rappresentati mai nessun dialogo, salvo singolari eccezioni motivate da interessi.

Le cosche alzano il tiro

La ’ndrangheta ha alzato il livello dell’arroganza, e dello scontro. Sono saltati gli intervalli riflessivi tra il proposito di uccidere e la relativa azione: ne sono una conferma le vite stroncate del brigadiere dei carabinieri Carmine Tripodi a San Luca, del vigile urbano Giuseppe Macheda a Reggio Calabria, del direttore del carcere di Cosenza Sergio Cosmai.

Bersagli simbolici. Anime pure invise agli infami, mariti e padri fedeli alle proprie scelte di campo, al proprio coraggio di portarle avanti nonostante tutto.

Tripodi comandava la stazione dei carabinieri nel piccolo paese culla della ’ndrangheta e base dei sequestri di persona. Aveva venticinque anni. Un mese e si sarebbe sposato. Macheda militava nella squadra contro l’abusivismo edilizio. Aveva trent’anni. Tre mesi e sarebbe nato suo figlio. Cosmai puntava a una riorganizzazione del sistema carcerario, a combattere le cosche anche dentro le prigioni. Aveva trentasei anni. Pochi minuti e avrebbe preso la figlia a scuola. Lo schieramento costituito dai De Stefano, dai Libri e dai Tegano sta sterminando quello di Condello. Vogliono azzerarne le batterie militari, soffocare sul nascere ogni possibile controffensiva, per quanto sia ancora ipotetica e tardi a manifestarsi. Il 15 aprile 1986, i De Stefano portano la morte anche nei palazzoni del CEP di Archi. Due killer attendono in uno sgabuzzino, posizionato in coincidenza dell’ingresso di una scala al piano terra di un condominio. Le prede sono due piani sopra, tra poco scenderanno portandosi a tiro. Quando lo scalpiccio sui gradini annuncia la discesa dei bersagli, i sicari si calano il passamontagna sulla faccia, escono dal ripostiglio e sparano.

Una settimana dopo un altro commando irrompe nella stanza di Francesco Serraino, il re della montagna, ricoverato per problemi diabetici agli ospedali Riuniti di Reggio Calabria.

In origine boscaiolo, don Ciccio è entrato negli appalti legandosi a ricchi imprenditori. Privo di ogni conoscenza in materia, è arrivato però a dirigere grossi lavori nell’edilizia. Di recente, in ospedale, ha incontrato Imerti per una riunione operativa. Serraino ha promesso al Nano feroce di sostenerlo contro i De Stefano.

E ha così firmato la sua condanna. Don Paolino l’aveva giurata a Serraino dai tempi dell’omicidio del fratello Giorgio.

In ospedale don Ciccio si muove a suo piacimento. Ha le chiavi del portone d’accesso al reparto e quelle dell’ufficio personale del primario. Dovrebbe essere agli arresti domiciliari, dunque piantonato, e invece...

Forse l’epilogo sarebbe stato identico anche senza raccomandazioni, senza la sicurezza generata da una rete di protezione e servilismi che fanno sentire il boss più che mai al riparo: don Ciccio è il futuro consuocero di un importante dirigente della locale azienda sanitaria.

Il reparto dell’ospedale è quello di diabetologia ed endocrinologia, chi vuole viene a salutare il boss, senza limitazione nel numero degli accessi, degli orari, della durata di permanenza. Il giorno in cui saluta il mondo dei vivi, Serraino ha ordinato a un infermiere di andare a comprare per conto suo i capretti destinati all’imminente banchetto di nozze della figlia. Nella stanza dell’ospedale s’aggira anche il figlio del boss. I due Serraino hanno chiesto ad alcuni medici di allontanarsi, vogliono stare soli. Hanno delle cose da dirsi.

I sicari sono tre. Il parente di un ricoverato ricorda di averli visti camminare in corridoio ma, essendo miope – come ripete agli investigatori –, non ha focalizzato i particolari. Nonostante la scelta di un orario affollato – le cinque e mezza del pomeriggio, quando l’afflusso di visite ai pazienti è alto e a cui si aggiunge la regolare presenza del personale tra le corsie e le stanze –, i killer non hanno lasciato traccia. A eccezione dei due cadaveri e di ventuno bossoli, calibro 7.65 e calibro 9 corto.

[Estratti tratti dal libro “Il Supremo. Ascesa e caduta di un comandante del male”, di Andrea Galli e Giuseppe Lumia, PIEMME, 2021] 

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