Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, parliamo di Pasquale Condello, killer efficientissimo durante la prima e la seconda guerra di 'Ndrangheta e che ha ispirato il libro “Il Supremo. Ascesa e caduta di un comandante del male”, di Andrea Galli e Giuseppe Lumia.

Assalti e morti, spargimento di bossoli e sangue.

Mesi e mesi di massacri.

Poi, nel luglio 1991, il silenzio cala improvviso.

Qualche settimana prima di un omicidio inedito.

La sospensione della guerra però non è merito di nessun uomo di ’ndrangheta né dell’osservanza di un ennesimo richiamo di Condello.

Ancor meno, di una tardiva e comune consapevolezza nel tacere. Del resto sono i boss e soltanto loro, a parlare. Ma in forma e contesti riservati. Ultrariservati.

Alle riunioni, presenziano anche figure apicali della mafia siciliana come Totò Riina. Leggenda vuole che sia arrivato e giri per la Calabria nascosto sotto un abito da prete. Riina, latitante, è in attesa dell’esito in Cassazione del primo maxiprocesso contro Cosa nostra, in compagnia di imputati del calibro di Luciano Liggio, Pippò Calò, Michele Greco, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella.

La frequentazione e gli affari sull’asse calabro-siculo sono consolidati da tempo. A confermarlo bastano, in altre epoche, la profonda amicizia tra don Paolino e Bontate, e ancor più indietro negli anni, i rapporti tessuti dal Patriarca Antonio Macrì con i padrini siciliani.

Adesso, i boss sono arrivati in Calabria con l’intenzione di andarsene soltanto dopo aver raggiunto il risultato. L’impegno ad agire.

Che le cosche proseguano a sterminarsi a oltranza prolungando all’infinito la seconda guerra di ’ndrangheta, ai vertici di Cosa nostra forse non interessa. O forse sì. Una soluzione esiste e può mettere tutti d’accordo, germogliare benefici di qui e di là dallo Stretto. Anche perché, secondo quanto raccontato dai pentiti, le fratture interne non si ricompongono.

Quando durante le riunioni gli uomini delle cosche discutono di colpe e responsabilità, qualcuno pretende una punizione mortale ai danni di Mico il Pazzo, cugino di Pasquale Condello, per l’assassinio di don Paolino, punizione che invece altri reputano ormai superflua; poi qualcuno reclama vendetta per l’omicidio in ospedale di don Ciccio Serraino, ma allo stesso modo correnti di ’ndranghetisti reputano il fatto di sangue superato dagli sviluppi del conflitto. Non se ne esce.

Sia come sia, dipendesse in forma esclusiva dai capi dei due schieramenti, l’impasse rimarrebbe insuperabile. Ma esiste un nome, dicono i mafiosi, il nome di un uomo calabrese che riguarda da vicino la Sicilia, un nome che può servire a noi come a voi, un nome che sortirà un effetto: porre fine al conflitto.

Il nome è Antonino Scopelliti.

Di mestiere fa il giudice.

Roma, 24 luglio 1991.

Dopo aver salutato l’amico Memmo, che insieme alla famiglia gestisce un ristorante di fronte a casa sua, in via dell’Orso, a breve distanza dal palazzo di giustizia, il giudice posiziona le valigie nel portabagagli della sua Bmw 318i. Scopelliti sta per abbandonare il caldo bestiale della capitale, diretto alla sua Campo Calabro, paese di quattromila abitanti poco più a nord di Villa San Giovanni, per trascorrere le vacanze. Poche settimane ma necessarie.

A Campo Calabro il giudice è nato e cresciuto, può respirare l’aria fresca del mare; qui tutti lo conoscono e gli vogliono un gran bene.

[…]

La morte del giudice Scopelliti

È il 9 agosto e il giudice sta tornando dal mare, dal suo mare del lido Il Gabbiano, tra Scilla e Villa San Giovanni, la spiaggia che degrada rapida verso l’acqua. Ha passato le vacanze in Calabria, la sua Calabria. Come ogni estate. Scopelliti viene da Roma per stare insieme alla madre e al padre, al fratello e alla sorella, agli amici d’infanzia. La solennità delle cose semplici è uno stile di vita per il cinquantaseienne sostituto procuratore generale della Cassazione.

Ha lasciato da mezz’ora il lido e sta rincasando a Campo Calabro a bordo della sua Bmw color blu notte. Ogni volta, l’ingresso della macchina tra le case del paesello sembra uno sbarco sulla luna. Gli adulti seguono con gli occhi la potente vettura e i bambini la rincorrono sperando in un sorriso del giudice che ama i motori, il calcio e la gente.

La sua gente.

[…]

Nella storia della Repubblica pochi anni come quello che corre rappresentano una sequenza di avvenimenti così impetuosi, il cui culmine sarà segnato – nel 1992 – dall’assassinio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di Cosa nostra. Ma l’avvio della stagione dello stragismo deve essere collocato all’anno prima. Con l’uccisione del giudice Antonino Scopelliti.

Semplificando, si dice che i palermitani abbiano commissionato alla ’ndrangheta l’omicidio. Famoso per la rigorosa applicazione del codice penale e per essere riuscito con le sue prese di posizione – decise e documentate – a far mutare orientamento a una sezione della Cassazione, antitetico all’“ammazzasentenze” Corrado Carnevale – presidente della prima sezione penale –, insensibile a pressioni, minacce, tentativi di corruzione, definito “l’inavvicinabile”, nella visione della criminalità organizzata Scopelliti rappresenta un pericolo nell’imminente ultimo grado di giudizio a cui è approdato il primo maxiprocesso alla mafia siciliana.

Da due mesi, gira voce che Scopelliti si sia offerto volontario. Vuole sostenere la pubblica accusa in Cassazione e c’è da avere paura, perché è un magistrato d’esperienza che ha lavorato nei maggiori processi d’Italia: la strage di piazza Fontana; l’assassinio di Aldo Moro; la strage di piazza della Loggia; l’omicidio del giudice Rocco Chinnici e quelli del giornalista Walter Tobagi e del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Eliminare Scopelliti, sempre nella prospettiva mafiosa, potrebbe generare tre effetti.

Il primo: togliere di mezzo un temibile avversario.

Il secondo: lasciar decorrere i termini massimi di custodia cautelare dei boss imputati, liberi così di darsi subito alla latitanza di massa.

Il terzo: far capire al collega del giudice che ne prenderà il posto il rischio di incorrere nella medesima sorte, quindi condizionarne l’operato e le scelte finali.

Cosa nostra ha necessità di non far passare in giudicato i principi affermati il 10 dicembre 1990 dalla Corte di Assise d’Appello di Palermo, in forza dei quali non si potrà più dubitare dell’unitarietà dell’organizzazione e dell’esistenza di un organismo di vertice – la “Commissione” – deputato alla gestione degli interessi collettivi; ma, soprattutto, Cosa nostra vuole stroncare sul nascere il fenomeno del pentitismo. Uno dei pilastri fondamentali su cui regge il Maxi 1 è costituito dalle dichiarazioni dei primi traditori che hanno scelto di collaborare con la giustizia, meritandosi il nome – tutti, senza distinzione – di “Buscetta”.

[…]

I killer affiancano il magistrato lungo la strada, quando ormai è quasi arrivato a Campo Calabro. Sono in sella a una moto, uno guida e l’altro impugna un fucile a canne mozze. Il giudice sta percorrendo una scorciatoia, uno di quegli itinerari imboccati per accelerare la discesa sulla costa e la risalita a casa dopo i bagni al mare.

Nella zona le abitazioni sono poche. L’appostamento dei sicari è stato un esercizio sicuro. Hanno soltanto dovuto mettersi in posizione, attendere il passaggio della Bmw, accodarsi e sparare mentre superavano la macchina accostandosi al finestrino sul lato del guidatore. Due i colpi esplosi. Il luogo dell’esecuzione è Piale, una frazione di Villa San Giovanni, nel punto in cui la Calabria più si avvicina alla Sicilia.

La Bmw prosegue per una ventina di metri, abbatte una cancellata e si inclina in uno strapiombo.

Scopelliti si è già spento, ucciso da un proiettile alla tempia.

[Estratti tratti dal libro “Il Supremo. Ascesa e caduta di un comandante del male”, di Andrea Galli e Giuseppe Lumia, PIEMME, 2021] 

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