Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, tocca al racconto del mondo dei cantanti neomelodici legati a boss e malavita.

La sottovalutazione del fenomeno neomelodico come elemento di connotazione identitaria, con tutte le ricadute del caso in termini di condizionamento sociale, passa attraverso il convincimento che questo genere musicale sia radicato solo in alcune aree del Mezzogiorno, che potremmo poco eufemisticamente definire ad alta densità mafiosa: Napoli, Palermo, Catania, i loro quartieri popolari, le loro periferie, i paesini di quelle province e non molto di più.

Nulla di strano, c’era da aspettarselo, si potrebbe commentare. Se non fosse che, invece, a cantare neomelodico sono quasi tre quarti della bella Italia, senza che alcuno sappia o voglia spiegare perché.

Il 5 luglio 2019, il neomelodico napoletano Franco Ricciardi è stato accolto con un'ovazione nel quartiere San Basilio a Roma, in occasione dei festeggiamenti per i 45 anni di lotta per la casa. Come palco un ring da pugilato, improbabili illuminazioni tutt’intorno e Ricciardi che attacca con un’infiorata di successi dal suo repertorio più classico, in un delirio di folla acclamante. Alla fine del concerto, le sue impressioni raccolte dalla stampa: «Son arrivato qui e mi sono sentito subito a casa. […] Le periferie si somigliano, se guardo oltre quei palazzi vedo il quartiere dove sono cresciuto, a Secondigliano». 

Di Roma, ma col cuore napoletano

E poi c’è Emanuel Fraticelli, neomelodico emergente, seguito sui social da migliaia di followers, che tanta meraviglia ha destato per la sua rapida ascesa alle luci della celebrità, senza mai calcare i territori partenopei. Fraticelli è nato nella periferia romana, a Torre Angela, e nei quartieri che circondano il Grande Raccordo Anulare, ha portato la musica neomelodica nelle feste, in occasione di matrimoni, battesimi e comunioni. Il suo “napoletano” ha lentamente soppiantato altri generi musicali e ha conquistato la gente del quartiere. Spiega Fraticelli: «Sono romano ma ho il cuore napoletano. […] Sono la voce del popolino perché con queste persone mi piace divertirmi: le "persone in" non mi interessano, le lascio nel loro mondo. Io ho scelto questo mondo perché mi piace».

E dunque eccola la verità che assumma comu l’ogghiu, che galleggia come l’olio nell’acqua, semplice e trasparente: le storie e i temi messi in musica dai neomelodici di terza generazione sono vita corrente per molti giovani e meno giovani anche a Roma, a Milano, a Torino e in tutto il civilissimo e laborioso Nord Italia. Perché in quelle canzoni c’è l'affermazione prepotente e orgogliosa di uno status, quello di vittima del “sistema” o di protagonista dell’“antisistema”, retaggio storico delle difficoltà con cui larghe fasce della popolazione riescono a identificarsi nello Stato, o quantomeno a identificarlo come possibile affidabile interlocutore.

Storie che si rappresentano in musica ma che rispecchiano la vita quotidiana delle fasce deboli e marginali della nostra società, dove violenza, esclusione sociale e illegalità costituiscono il “normale” dispiegarsi della quotidianità delle persone.

E’ per questa via che la musica neomelodica appare e diventa un segno di comunità, un segno di riconoscimento identitario che ha la capacità di creare coesione nel gruppo, in virtù dell’esclusione di chi la canta e la ascolta rispetto all’ambiente sociale circostante. Proprio come la racconta Fraticelli: io qui con voi, gli altri fuori da qui. La separazione – in questo modo – acquista il senso e l’espressione di un valore: ci si separa perché non si vuol essere comuni, come gli altri, perché si vuol manifestare la propria diversità/superiorità rispetto a tutti e a tutto ciò che sta al di fuori del gruppo. Le distanze geografiche e i dialetti vengono annullati dalla ritrovata, comune identità.

E poco importa se questa diversità/superiorità passa attraverso l’ostentazione dell’uso di armi e droga; poco importa se a fare la differenza è l’esaltazione delle pratiche violente di un malinteso senso dell’onore; poco importa se il richiamo ai rituali di camorra e di mafia costituisce l'elemento primario di coesione del gruppo, nei testi delle canzoni come nelle immagini dei video postati in rete, alla ricerca di clic, like e consenso.

“Neorealismo periferico"

In questo scenario, l’amore per la canzone neomelodica equivale, indifferentemente, all'esaltazione della propria identità e all'esaltazione della mentalità e delle pratiche di malavita, perché in questo può riconoscersi chi vive nella marginalità. Un orizzonte di senso, che è anche la risposta più immediata e semplice al bisogno profondo e inappagato di identità e di appartenenza. A Napoli come a Palermo, come a Roma o Milano o in qualunque altra parte del Paese, dove la quotidianità si trascina all'insegna del rancore sociale.

Il sociologo Maurizio Ravveduto ne ha scritto come di un «neorealismo periferico» che ha dilagato ben oltre i confini della provincia partenopea, insediandosi stabilmente nei quartieri-ghetto di tutta Italia, «quasi a voler esorcizzare una somiglianza morale che unisce trasversalmente il mondo dei ghetti».

Così, il genere neomelodico è divenuto «[…] la metafora sonora di una minoranza che ha trovato nella musica il modo di contrapporsi alla cultura ufficiale con cui non sa discutere, di cui non condivide il linguaggio perché ne teme le argomentazioni»; un simbolo e, al contempo, anche uno strumento di affermazione per tutti i marginali, per tutti i soggetti che in questo modo riescono ad «entrare nell’arena della cultura con il proprio codice di valori e significati, in opposizione alla mentalità borghese. È l’elaborazione artistica di una minoranza che non disdegna il ricorso alla violenza».

Uno spazio culturale e sociale condiviso strategico, che è anche e soprattutto un terreno di coltura ideale per le organizzazioni mafiose che se ne sono impadronite. E lo Stato, ancora una volta, è rimasto a guardare.

Testi tratti dal libro “La mafia che canta. I neomelodici, il loro popolo, le loro piazze”, di Calogero "Gery" Ferrara e Francesco Petruzzella.

© Riproduzione riservata