Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, tocca al racconto del mondo dei cantanti neomelodici legati a boss e malavita.

Abbiamo più volte sottolineato quanto il radicamento locale, a volte solo apparente, del fenomeno neomelodico abbia spinto media, benpensanti e intellettuali a disinteressarsi quasi del tutto di questo filone musicale, a trascurarne l’evoluzione e le trasformazioni nel tempo. Qualcuno ne ha parlato con ironia, talvolta con fastidio; altri hanno provato a ignorarlo; altri ancora ne hanno messo in rilievo i tratti più grotteschi e picareschi. E poi c’è stato anche chi, cogliendo al volo la migliore delle occasioni per coltivar polemica, ha segnalato al suo pubblico di lettori il declino della lotta alla mafia, ironizzando su magistratura e forze dell’ordine, a suo avviso ridotte ormai a occuparsi di canzonette e malavitosi di quartiere, perseguendo neomelodici e organizzatori di feste in piazza.

L’ultima trincea dell’antimafia, l’ha descritta, ad esempio, un bravo giornalista sul Foglio del 13 marzo 2021: «Nell’ultima trincea dell’antimafia ci si confronta con boss che esercitano il potere autorizzando gli ambulanti a vendere frutta e verdura o stabilendo la scaletta dei concerti dei neomelodici in piazza. Rimasugli di mafia per merito delle continue batoste, eppure c’è chi vede nei testi delle canzoni pericolosissimi messaggi mafiosi». Perle di saggezza, verrebbe da pensare, se non fosse che il suddetto giornalista – che di mafia ha sempre scritto, largheggiando nella pubblicazione di verbali, confessioni, foto e ordinanze saccheggiate dai palazzi di giustizia – sorvola sul fatto che “autorizzare” gli ambulanti ad aprire le bancarelle durante le feste e i concerti di piazza, equivale a imporre la signoria mafiosa sul territorio, equivale a chiedere il “pizzo” alla povera gente, equivale a perpetuare un giogo criminale e culturale non diverso da quello un tempo esercitato dalle bande di Riina e compagni. In questo, anche i rimasugli di mafia non hanno cambiato metodo e scopi.

Negare l’evidenza

Sono tutte considerazioni di buon senso, legate alla cronaca più che alla storia della mafia; e invece, la riflessione segue vie diverse, fino a paventare che prendersela coi neomelodici, serva essenzialmente ad alimentare la fiamma dell’emergenza che i professionisti dell’antimafia vorrebbero tenere sempre surrettiziamente accesa per perpetuare un potere andato ormai in rovina dopo la sconfitta della feroce mafia corleonese: «Ma la fiamma dell’emergenza va tenuta perennemente accesa. Analisti, giornalisti e antimafiosi di mestiere si cimentano in una eterna rilettura del passato, tra trattative che perdono pezzi, servizi segreti deviati, traditori di Stato che restano sempre senza volto e pentiti che si guadagnano la pagnotta con rigurgiti di memoria fuori tempo massimo. […] Senza la mafia non esisterebbe l’antimafia e allora la mafia va cercata e trovata anche laddove non c’è».

C’è l’eco di un’arte e di una scuola, nell’elaborazione di questi pensieri. Una scuola antica, che ha avuto maestri illustri, di caustica e – diciamolo pure – sottile abilità; la scuola di quelli che accoglievano con editoriali di fuoco le deposizioni di Tommaso Buscetta al maxiprocesso o che svolgevano inchieste a puntate sulle buche nella strade di Palermo per abbattere il sindaco Orlando e la sua primavera politica o, ancora, che – subito dopo le stragi corleonesi – paventavano le conseguenze e gli eccessi della dittatura dell’antimafia di Giancarlo Caselli e dei suoi pretoriani. Si dirà: punti di vista. Di certo, avrà molto da ridire chi la pensa alla stregua del nostro Autore, leggendo i racconti che – solo a titolo esemplificativo – abbiamo offerto all’attenzione dei lettori. Perché, a giudizio di costoro, quelle organizzate dai capimafia di quartiere, coi palchi e i neomelodici, sarebbero solo pacchiane feste di piazze e nient’altro: «Una rivisitazione compulsata dalla narrazione, mediatica e scandalistica, che ha trasformato i palchi allestiti per i concerti nelle borgate delle città in luoghi di altissima simbologia mafiosa. Stonehenge contemporanei che il tramonto non carica di suggestioni e colori, ma di decibel, fumo delle interiora cucinate sulla griglia rovente, calia e semenza, zucchero filato e fiumi di birra. Suvvia, altro non sono che pacchiane feste di piazze. […] Senza mafia la narrazione mediatica si affloscia, perde l’appeal necessario per finire in prima pagina e in prima serata».

Sbagliato sottovalutare

Il mio punto di vista parte da una prospettiva ben diversa. E, anzi, a rileggere queste teorizzazioni, mi sembra di ripiombare anni luce indietro nel tempo.

In materia di criminalità organizzata, negli anni appena trascorsi, non si contano gli investigatori, gli analisti e i commentatori irrisi o ammoniti con sarcasmo, ogni qualvolta avevano provato a richiamare l’attenzione dei cittadini e delle istituzioni su fenomeni apparentemente lontani e diversi dal classico stereotipo criminale mafioso. Quanta irresponsabile superficialità ha sminuito, depistato, bloccato la ricerca delle verità sui delitti di mafia e sullo sviluppo dell’economia criminale?

A studiare e leggere i materiali che abbiamo pubblicato e i tanti altri che avremmo potuto pubblicare, ci siamo convinti che solo rileggendo in un quadro unico episodi e personaggi che ruotano intorno a questo complesso e articolato mondo della musica neomelodica di terza generazione, possiamo davvero comprendere quanto sia importante intervenire sul suo retroterra culturale, sull’humus che avvelena la musica neomelodica e la trasforma in un veicolo di diffusione di cultura criminale.

Palchi infiorati dai quali partono dediche a camorristi e mafiosi; saluti agli “ospiti dello Stato” e ai “guaglioni ‘mezza ‘a via”; melodie che esaltano la violenza e il metodo mafioso. A mio avviso sono tutte espressioni e manifestazioni di un disvalore sociale che monta, che cresce, e che da fenomeno locale diventa sfida al patto democratico della nazione e fonte di disgregazione dello stato di diritto. Altro che pacchiane feste di piazza.

Ebbene: che Paese è, quello in cui i cittadini, i giornalisti, gli intellettuali, rimangono indifferenti all’ascolto di musiche e parole che esaltano la cultura della violenza, della prepotenza e della sopraffazione? Che Paese è quello che accetta vengano pubblicamente declamate strofe in musica, in memoria di padrini e capimafia? Che Paese è quello in cui la politica e le classi dirigenti non si accorgono dell’abilità con cui la criminalità organizzata ha intercettato un importante filone di cultura popolare, asservendola ai propri scopi e alle proprie strategie di controllo del territorio?

Odio gli indifferenti, scriveva Antonio Gramsci. E non si sbagliava affatto.

Testi tratti dal libro “La mafia che canta. I neomelodici, il loro popolo, le loro piazze”, di Calogero "Gery" Ferrara e Francesco Petruzzella.

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