Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.

«Dutturi, picchì m'è fari l'incastru (l'ergastolo) pi 'sti quattru cornuti? Duttu', scrivissi!»

A parlare, a manifestare la propria volontà di collaborare con la giustizia, è Pietro Romeo, un «soldato» del gruppo di fuoco di Nino Mangano e Leoluca Bagarella.

È davanti a me, senza manette, in piedi, in una minuscola stanza della questura di Palermo che sembra ancor più piccola se rapportata alla sua mole.

Pietro Romeo è alto e robusto: pesa un centinaio di chili. Mi colpiscono anche i suoi denti, larghi e distanziati. Si capisce subito che ha una forza erculea e che sarebbe in grado di uccidere un uomo a mani nude. Del resto proprio per questo lo cercavamo.

Non ho mai avuto paura dei mafiosi. Se si dimostra di temerli è finita. Poi, almeno in quegli anni, lo Stato era decisamente dalla nostra parte. Ed è proprio il conforto dello Stato che cerco in quell'occasione.

Do un'occhiata interrogativa ai due poliziotti che lo sorvegliano e ricevo un cenno inequivocabile: «Non si preoccupi, dottore. Non farà fesserie».

Anche Santino Giuffrè, il dirigente della Criminalpol di Palermo che mi ha guidato fino a quella stanza, del resto mi ha rassicurato: «È una sorta di gigante buono».

«Buono la minchia!» penso io. «È uno che, nella migliore delle ipotesi, ha personalmente strangolato almeno una decina di persone.» Lo cercavamo dal mese di giugno di quel 1995 e, con lui, tutti i componenti del gruppo di Mangano: Salvatore Grigoli, Gaspare Spatuzza, Francesco Giuliano, Peppuccio Barranca, Salvatore Benigno, Giorgio Pizzo, Fifetto Cannella, Cosimo Lo Nigro, Giovanni Ciaramitaro, Salvatore Faia, Giovanni Garofalo... A parte Spatuzza e Cannella, tutti gli altri erano per noi dei perfetti sconosciuti.

Dopo che si era diffusa la voce della collaborazione di Pasquale Di Filippo si erano tutti dati alla macchia e, per me, si era aperta una vera «stagione di caccia». La caccia al gruppo di fuoco di Bagarella, a quel manipolo di uomini che lo aveva protetto durante la latitanza e gli aveva fatto da braccio armato, la caccia alle loro armi, al loro esplosivo, ai cadaveri che avevano disciolto nell'acido o disseminato per le campagne del Palermitano.

Avevamo mobilitato tutte le forze di polizia per rintracciare quei latitanti. Era un momento veramente particolare, quasi unico: carabinieri, polizia, guardia di finanza e Dia che si muovevano all'unisono, concordemente e lealmente.

Oltre a una dozzina di gregari e personaggi secondari, riusciamo a prendere in prima battuta solo Giorgio Pizzo, il coordinatore delle estorsioni del gruppo, e Salvatore Benigno, stimato laureando in Medicina e Chirurgia di Misilmeri che, tra un esame e l'altro, aveva trovato il tempo di eseguire il fallito attentato a Maurizio Costanzo, di collocare una macchina imbottita di esplosivo allo stadio Olimpico di Roma e di dare una mano ai suoi amici nel sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio tredicenne del pentito Santino, che i cosiddetti uomini d'onore, con il pretesto di indurre il padre a ritrattare, avevano rapito e tenuto segregato per più di due anni. E alla fine avevano barbaramente strangolato dissolvendone il cadavere nell'acido.

Ma qui ci fermiamo. Cosa nostra ha adottato le sue contromisure e l'elenco dei latitanti più pericolosi del ministero dell'Interno si è arricchito di un'altra decina di nomi.

Quattro arresti in due giorni

La svolta si verifica a novembre. In due giorni, ne arrestiamo quattro. Il primo, appunto, è Pietro Romeo. La base di partenza è un'informazione proveniente da una fonte della Criminalpol di Palermo: «Prima dell'arresto di Bagarella, Romeo si voleva sposare e aveva già versato la caparra, una trentina di milioni di lire, per comprare una casa. A Bagheria».

Non è granché come notizia, ma è meglio di niente. I poliziotti si mettono al lavoro. Qualche giro per agenzie immobiliari, accertamenti all'ufficio del registro e al catasto, informazioni raccattate in giro e, in poco tempo, riescono a individuare la casa in questione e i venditori.

Qualche giorno ancora di passaggi discreti vicino l'abitazione dei proprietari della casa opzionata da Romeo e di appostamenti nella zona dove questa è situata e non è difficile arrivare al latitante. Romeo non è un capomafia, non può contare su una fitta rete di protezioni e di favoreggiatori.

Gli uomini della Criminalpol lo fermano a Bagheria il 14 novembre 1995 mentre passeggia, mano nella mano con la sua ragazza, tra le vetrine dei negozi del centro della cittadina famosa per le sue ville settecentesche. Non sono ancora sposati, ma aspettano un figlio. Romeo ha appena ventinove anni.

I poliziotti lo portano in questura a Palermo, dove nel frattempo si prepara il solito incontro con la stampa. Come dopo ogni arresto di mafia. I giornalisti affollano la sala della conferenza e nell'attesa si domandano chi sia quest'ultimo latitante finito in manette.

Poco prima della conferenza stampa, Santino Giuffrè, che aveva seguito le indagini dell'arresto, mi prende in disparte e mi dice: «Credo che con Romeo ci possa essere qualche possibilità di apertura. Vogliamo provarci?». Attraversiamo un paio di lunghi corridoi e arriviamo negli uffici della Criminalpol, nella zona dove ci sono le camere di sicurezza.

Romeo è ora di fronte a me, in stato di fermo. Lo saluto e lo invito a sedersi, un modo come un altro per attenuare visivamente la chiara differenza fisica tra noi due che, indubbiamente, è a suo favore. Gli comunico rapidamente le accuse nei suoi confronti: partecipazione ad associazione mafiosa, omicidi aggravati, porto d'armi, occultamento e soppressione di cadaveri. Gli faccio presente che, per quelle imputazioni, la pena prevista è il carcere a vita, l'ergastolo.

Alla parola ergastolo ha un contraccolpo. Dichiara senza mezzi termini che è disposto a collaborare, che non ha remore a tradire i suoi vecchi compagni. Sembra sincero. A dispetto della sua stazza non è per niente arrogante, mantiene un atteggiamento umile, appare quasi dispiaciuto di averci costretto a lavorare per catturarlo. E tiene gli occhi bassi.

Si esprime solo in dialetto, in siciliano strettissimo, quasi incomprensibile, ma il significato delle sue parole è chiarissimo. Romeo è pronto a passare dalla nostra parte. Metto nero su bianco la sua volontà di collaborare. Pochissime righe, quelle necessarie a non fargli più cambiare idea, a rendere quel passo definitivo, irretrattabile: mi faccio fornire scarni particolari su un paio di omicidi che aveva commesso e che conosceva solo lui. A questo punto Pietro Romeo non ha più scelta: per la mafia è ormai soltanto un «infame», uno «sbirro».

Andiamo all'incontro con i giornalisti. Ma non possiamo certo divulgare la collaborazione del «picciotto». Dobbiamo fingere che Romeo continui a essere un mafioso a tutti gli effetti. Così decidiamo di raccontare una menzogna: «Stiamo trasferendo il pericolosissimo e feroce killer di Cosa nostra a Pianosa. Sottoposto al regime del 41 bis, il carcere duro».

La bugia ci farà guadagnare tempo. Tempo preziosissimo. Con questo escamotage siamo certi che né i familiari né il suo vecchio avvocato cercheranno di incontrarlo. Ufficialmente Romeo non è detenuto a Palermo perché si è detto pubblicamente che è in viaggio verso il supercarcere dell'isola toscana. Prima che si organizzino per raggiungere Piombino e poi Pianosa, otteniamo almeno un paio di giorni di vantaggio. Tempo sufficiente per sfruttare al massimo le conoscenze di Romeo; in assoluto riserbo. Per la prassi dell'epoca, non esiste conferenza stampa delle forze di polizia che non sia «adeguatamente» illustrata da una foto dell'arrestato. E questo è un ulteriore problema.

Per raccogliere i frutti investigativi dobbiamo tenere segreta la sua decisione di collaborare e non dare adito a dubbi, dubbi che sorgerebbero immediatamente senza una sua fotografia. Ma abbiamo anche il dovere, per tutelare la sua riservatezza, di evitare la pubblicazione della sua immagine.

Così, in quattro e quattr'otto, gli agenti vanno a pescare una vecchia segnaletica di Romeo che modificano opportunamente in maniera tale da farla sembrare recente, ma in cui il soggetto ritratto risulta sostanzialmente irriconoscibile. È quella che l'indomani avranno tutti i quotidiani.

copertina libro sabella cacciatore

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