Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, tocca al racconto della strage di Capaci, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta: Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo.

Gioacchino La Barbera aveva appreso che si stava organizzando l’attentato al giudice nel periodo in cui si era stato caricato il cunicolo di esplosivo, una decina di giorni prima che succedesse la strage, più in particolare era venuto a sapere da GIOE’ANTONINO che la vittima designata era il dott. Falcone.

«Io avevo capito che nell’aria c’era di fare un attentato contro una persona importante. Potevo anche immaginare ma non sapevo fino a, fino a quel giorno non sapevo che si trattava del dottor Falcone. Me l’ha partecipato il GIOE’, mi ha detto: hai capito che cosa stiamo preparando? Dice, e aspetta, dice, che ne vedrai, ne vedrai di altre di queste cose. Al che ho capito, ho capito, mi ha spiegato che si trattava, appunto, di aspettare il dottor Giovanni Falcone per, per fare esplodere quel pezzo di autostrada».

La Barbera ha confermato le dichiarazioni di Di Matteo per quanto attiene la circostanza relativa agli incontri che precedettero la strage, tenutisi nella casa di C. da Rebottone, di cui sapeva dove era nascosta la chiave (sotto il pilastro vicino al cancello) e ha collocato tali incontri fra la fine di aprile e i primi di maggio, riferendo, come Di Matteo, che ad essi erano soliti partecipare Bagarella, Brusca, Gioè, Di Matteo e Rampulla.

Quest’ultimo gli era stato presentato da Gioè, sapeva che non era della zona, per cui per farlo arrivare alla casa di C.da Rebottone gli avevano dato prima appuntamento alla pompa di benzina di Gioè.

Non aveva avuto modo di notare alcun esplosivo in contrada Rebottone, aveva assistito però alle fasi di costruzione del telecomando ad opera di Pietro Rampulla. Dal significato delle sue espressioni si potrebbe derivare che fu lui a procurare i bidoni usati da Di Matteo ed Agrigento per trasportare l’esplosivo a Capaci.

[…] Con riferimento al trasporto dell’esplosivo da Altofonte a Capaci, l’imputato ha raccontato che avevano caricato i bidoni, che si trovavano per l’occasione sulla veranda della casa di campagna, in contrada Rebottone, sulla Patrol Jeep di La Barbera: era di mattina e all’operazione avevano partecipato Brusca, Gioè, Di Matteo, Bagarella e riteneva vi fosse anche Rampulla, ma per quest’ultimo si trattava non di un ricordo preciso ma solo di una intuizione, credendo egli che questi dovesse essere per forza presente perché dopo avrebbe avuto il compito di mescolare i due tipi di esplosivo.

Da battistrada avevano fatto loro, lui e Gioè, con il fuoristrada perché vi era l’esigenza di proteggere i due latitanti, Brusca e Bagarella, mentre Di Matteo aveva probabilmente altro fuoristrada e Brusca disponeva di una Clio, appartenente però a Gioè: […].

Il percorso, come per Di Matteo, passava dallo scorrimento veloce, poi per Viale delle Scienze, V.le della Regione, in direzione Punta Raisi, per un tragitto di 30 o 45 minuti, che, secondo La Barbera, potrebbe essere stato così lungo anche per una deviazione, resasi necessaria per un posto di blocco. Al bivio di Capaci era presente una persona, che poi aveva individuato per Troia, che era a bordo di una Fiat Uno e che Gioè conosceva perché gli aveva fatto dei segnali. In questa fase La Barbera non sapeva ancora dove si stava dirigendo e da chi. Arrivati al casolare avevano scaricato l’esplosivo; a tale operazione avevano partecipato un po' tutti i presenti, parte dei quali l’imputato vedeva in quel momento per la prima volta: si trattava di Ferrante, Cancemi, Battaglia, Biondo, Biondino, Ganci Raffaele e uno dei suoi figli, forse Domenico.

Un esplosivo “diverso”

Durante le operazioni di scarico si era accorto che insieme all’esplosivo erano stati trasportati anche la ricevente e la trasmittente e i detonatori: «..Poi ho visto all’arrivo a CAPACI che da qualche parte c’erano messi in una macchina, che non era sicuramente la mia, sono arrivati anche sia la trasmittente che la ricevente, erano messi in un sacchetto di plastica...i detonatori camminavano assieme alla ricevente e trasmittente, comunque non assieme all’esplosivo».

Secondo La Barbera, dopo aver proceduto allo scarico dei bidoni, si era passati subito al travaso dell’esplosivo da loro trasportato e dell’altro che si trovava già nella casa.

A questo punto egli era in grado di riscontrare la diversità, rispetto alle dimensioni, dei bidoni portati da Altofonte rispetto a quelli trovati a Capaci e poi usati per comporre la carica: «La differenza dei bidoni che abbiamo fatto il trasporto con quelli che poi abbiamo usato per mettere dentro il cunicolo, è che come bidoni sono gli stessi soltanto di diversa capacità, quelli che abbiamo utilizzato per il trasporto sono molto più grandi, ho detto 50 litri, 50 chilogrammi circa, mentre quelli che abbiamo utilizzato per, da mettere giù dentro il cunicolo erano bidoni piccoli, un 20-25 litri, ma la stessa tipologia, la stessa plastica, lo stesso tappo in piccolo...».

Secondo La Barbera l’esplosivo proveniente da Altofonte era di colore bianco panna, granuloso, e sui 100 kg come quantità.

«Quello che abbiamo trasportato noi, l’ho visto al momento del travasamento, era un tipo di esplosivo, ripeto, che era un po’ granuloso tipo sale di quello che si usa per concimare nell’agricoltura. Era tipo bianco, bianco un po’ sporco, bianco panna».

[...] Quanto invece all’esplosivo trovato a Capaci, La Barbera è categorico nell’affermarne la diversità rispetto a quello trasportato da Altofonte, nel senso che era molto più farinoso, se ne era accorto perché aveva visto che restava impressa la mano durante l’uso, e che era più scuro del loro: «...Ho notato che c’era dell’esplosivo e che comunque era diverso dal nostro; l’esplosivo che ho notato all’interno della casa era molto più farinoso rispetto a quello che abbiamo portato noi da ALTOFONTE. Abbiamo trovato anche dei bidoncini molto più piccoli di quelli che abbiamo portato noi, all’incirca, se non ricordo male, venti, venticinque chili, per un numero, se non ricordo male, dodici o tredici bidoncini in tutto, ce n’era uno più grosso degli altri, che erano da 25 litri uno e erano tutti nuovi e vuoti, li abbiamo riempiti noi quando abbiamo fatto il travaso...e poi li abbiamo messi dentro il cunicolo...».

La costruzione del radiocomando

L’apporto al materiale probatorio proveniente da La Barbera relativamente alla cd. “fase Altofonte“ si arricchisce non solo di quanto egli ha rivelato in ordine al trasporto dell’esplosivo, ma anche per le informazioni che ha fornito sul congegno che doveva attivare la carica esplosiva.

[…] Le rilevazioni di La Barbera a proposito della fase di ricostruzione del congegno di attivazione della carica, avvenuta durante lo stazionamento degli attentatori nella casa di Di Matteo in contrada Rebottone, sono state importantissime: si deve considerare infatti che fu l’unico fra il gruppo dei primi collaboratori a dare notizie sulla ricostruzione della trasmittente e della ricevente, perchè Di Matteo ne aveva saputo riferire solo marginalmente non avendovi preso parte alcuna, limitandosi ad una mera attività di osservazione esterna, e dovendosi poi aspettare le dichiarazioni di Giovanni Brusca per tornare sull’argomento, dichiarazioni che comunque, come si vedrà, non hanno aggiunto informazioni rilevanti sul punto.

Nella sostanza dunque grazie all’imputato, si è appreso che la realizzazione del congegno era stato frutto dell’elaborazione artigianale di poche persone, delle quali una sola aveva maggiore competenza rispetto alle altre (il Rampulla).

Il meccanismo si basava su un sistema molto semplice, costituito da una trasmittente deputata a lanciare il segnale a distanza e un apparecchio che, ricevutolo, dava via all’attivazione di un circuito elettrico collegato ai fili dei detonatori che erano stati messi in una frazione della carica determinando l’esplosione.

La trasmittente, come si è visto direttamente dalle dichiarazioni del collaboratore, era costituita da un aggeggio di quelli generalmente usati per azionare i modellini di aeroplani, quindi facilmente reperibile in un qualsiasi negozio di giocattoli.

La peculiarità dell’oggetto stava nel fatto che esso era in grado di sostenere due riceventi e non solo una, come dimostra il fatto che due erano i pulsanti che servivano da regolazione del segnale: è significativo in proposito che coloro che si stavano adoperando su di esso avevano bloccato, sigillandolo, il secondo pulsante, avendo realizzato che la seconda ricevente non funzionava.

Tale decisione era frutto di mera precauzione, perché gli operatori volevano essere sicuri che nel momento dell’azione non ci potesse essere occasione di sbagliare pulsante schiacciando quello dei due non collegato con la ricevente attaccata alla carica.

Ma tanta diligenza aveva spinto ancora oltre gli esecutori perché essi, sempre al fine di garantirsi con un margine ancora più ampio la sicura realizzazione dell’effetto esplosivo, avevano sigillato anche in una direzione, il pulsante che avrebbe collegato la trasmittente alla ricevente adoperata, per evitare che nel “momento clou” chi doveva premere la levetta potesse sbagliare la direzione in cui si doveva muovere: cioè, posto che le direzioni potevano essere destra - sinistra (e viceversa), e alto -basso (e viceversa) si era avuto cura di fare in modo che chi doveva inviare il segnale non avesse alternativa nello scegliere la direzione e fosse quindi costretto a muoversi solo in quella giusta, che era l’unica idonea ad attivare la carica, che, secondo i ricordi dell’imputato, doveva essere quella che si spostava da destra a sinistra.

La ricevente era stata costruita interamente dagli attentatori: si trattava in pratica di una scatola di compensato molto sottile nella quale era stato allocato un motorino alimentato da una serie di batterie da 1.5 che al momento in cui veniva attivato, tramite il contatto stabilito da un chiodo che batteva su una lamella - una di quelle prelevate da una batteria piatta - determinava un contatto elettrico che veniva convogliato in un filo, al quale poi sarebbe stato collegato quello del detonatore collegato alla carica.

Malgrado l’artigianalità del congegno, si può tranquillamente notare come lo strumento costruito sia stato frutto indubbiamente di una certa padronanza della tecnica in materia, ma anche che la sua costruzione non aveva richiesto l’impiego di competenze particolarmente elevate, essendo stato sufficiente applicare al riguardo le capacità di un semplice elettricista di buon livello.

Tale capacità, proprio perché pratica e quindi intrisa da tanta esperienza, aveva indotto gli operatori a verificare empiricamente se il congegno costruito fosse anche operativo: la prova si era verificata ancora una volta in contrada Rebottone sulla veranda dell’appartamento nei primi giorni di maggio.

A tal proposito erano necessari i detonatori e oggetti che potessero segnalare se l’impulso radio trasmigrava dalla trasmittente alla ricevente, posto che non era pensabile aspettare di fare la verifica con la carica composta. Erano entrate pertanto in scena le lampadine flash. A questo proposito l’imputato ha ammesso di essere stato lui a procurarle, indicando il nome del fornitore e l’esatta ubicazione del negozio: «Sì, le ho trovate in un negozio fotografico che c’è, che c’è vicino dove abitava DI MATTEO MARIO SANTO, nella zona di PIANO MAGLIO, [...]».

Quanto alla prova, tecnicamente si trattava di un’operazione molto semplice che consisteva nell’applicare la lampadina flash al filo che usciva dalla ricevente, quel filo che poi all’atto pratico sarebbe stato collegato al detonatore: mandando l’impulso attraverso l’azionamento della levetta con il movimento destra - sinistra, doveva azionarsi il circuito elettrico contenuto nella scatoletta di compensato, quindi la produzione dell’energia si convogliava nel filo che poi andava a stimolare il detonatore per farlo scopppiare:

«[...]Ogni volta che si doveva vedere il funzionamento della ricevente, della trasmittente si faceva spesso, almeno mi sono trovato io più volte a vedere se l’impulso, anche a distanza, qualcuno si portava la ricevente a distanza per vedere se l’impulso arrivava bene... una volta definita la scatola e la trasmittente era pronta, attaccavamo alle estremità dei due fili che fuoriusciva dalla ricevente, attaccavamo la lampadina flash che poco fa ho detto e accendendo il dispositivo che c’era sulla trasmittente, facendo una manovra sulla cosa che fuoriusciva dalla, si mandava l’impulso e si accendeva la lampadina».

La prova era pertanto volta a verificare l’effettività della trasmissione del segnale e a saggiare anche le possibilità che il sistema così costruito andasse incontro ad interferenze di altre onde vaganti nell’etere: poiché nessun espediente poteva escludere tale evenienza, la soluzione escogitata era stata quella di provvedere all’attivazione del congegno solo nell’imminenza dell’arrivo del corteo delle macchine: «Ho sentito più di una volta che vi era la possibilità di interferenze, ho sentito più di una volta questo discorso a parte che io non sono un tecnico,..., però ho saputo, ho sentito che le percentuali erano minime, nel senso che un qualche interferenza si poteva avere sulla ricevente. Infatti si era creato, si era detto al momento in cui la ricevente si, cioè, si doveva mettere in uso, il collegamento doveva essere fatto all’ultimo minuto. PIETRO RAMPULLA quando qualcuno chiedeva che percentuale di possibilità c’era che qualcosa si poteva inserire, si poteva inserire sulla ricevente e lui rispondeva che la possibilità era minima, perché... io adesso non lo so, se ci poteva essere un qualcosa vicino, un apri cancello, un qualcosa che poteva interferire sulla ricevente, poteva scoppiare ancora prima di usare la nostra trasmittente».

Testi tratti dalla sentenza della Corte d'Assise di Caltanissetta (Presidente Carmelo Zuccaro)

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