Dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro, recuperiamo questo articolo dall’archivio.


1992 - 2022: 30 anni dopo le terribili stragi di mafia, su quegli eventi sappiamo molto. Eppure ci sembra di non sapere nulla.  È per questo che, ogni tanto, fa capolino un pensiero: chiedete a Matteo Messina Denaro. È lui il temibile boss di Castelvetrano, latitante dal 1992, pupillo di Totò Riina, a custodire i segreti inconfessabili sugli eventi che portarono alle stragi di Capaci, Via D’Amelio, alle bombe del ‘93. 

Riina lo diceva, a fine ‘92, quasi presagendo la sua prossima cattura: «Se mi succede qualcosa, Matteo e Giuseppe sanno tutto». Giuseppe è Graviano, boss palermitano, altro rampollo della mafia corleonese. Riina poi viene catturato a Gennaio del ‘93. E Messina Denaro ha tempo di portarsi delle cose con sé, ci dicono alcuni pentiti, dall’ultima casa dove era ospite lo zio Totò. Documenti? Pizzini? Agende?  Via via, negli anni, questi segreti sono cresciuti, hanno assunto una forma fisica, sono diventati, addirittura, in qualche articolo, un “baule”.

Ma io non me lo immagino Messina Denaro girare dietro con un baule di segreti, non fosse altro che per scomodità.

Ma, ancora di più, adesso che più invecchio e più cresce in me un senso di disincanto, non riesco neanche ad immaginarlo custode di chissà quali segreti. Primo, perché Cosa nostra per noi ormai non ha più segreti. I collaboratori di giustizia, soprattutto di quegli anni, ci hanno raccontato tutto. Segreti, invece, hanno altri, che Cosa nostra hanno sfruttato, in quel periodo come nel resto della storia dell’organizzazione criminale, e che non parleranno mai, perché mai avremo un pentito di Stato, se così lo vogliamo chiamare, che ci racconta l’altra parte della trattativa perenne tra istituzioni e criminalità organizzata, che è la cifra del nostro paese. 

E poi sono convinto che Messina Denaro non abbia chissà quali segreti perché sono riemerso da poco da un lavoro di grande immersione, un lavoro di carotaggio, di più, una faticaccia da palombaro. Nella confusione di questi tempi, tra decine di “rivelazioni” che durano lo spazio di un tweet, accuse reciproche, sospetti e ricostruzioni “inedite”, ho deciso di fare quello che ogni giornalista scrittore dovrebbe fare. Tornare alla fonte, fare parlare le carte, i fatti, i territori. È tutto lì, mi sono detto. Basta risalire alla sorgente. La sorgente sono i fatti che hanno portato alle stragi del ‘92 - ‘93, la loro organizzazione ed attuazione, le tessere del mosaico messe insieme con cura. E questo viaggio in risalita ed in profondità, alla foce e nell’abisso di quegli anni, ha preso forma di un libro, e il libro si chiama Matteo va alla guerra.

Lavorando, ancora una volta, nelle viscere dei fatti, aumentano le domande - com’è giusto che sia - ma ci sono anche delle pietre angolari importanti. No, Matteo Messina Denaro non depositario degli ultimi segreti sulle stragi, perché Riina non gli ha detto tutto. Perché non diceva tutto a tutti, ma ad ognuno un pezzo della sua storia, ed era comunque la storia che vedeva Riina dalla sua prospettiva. Quando Messina Denaro va a Roma per pedinare Giovanni Falcone ed organizzare il suo omicidio nella capitale, non sa che, nelle campagne vicino Palermo, Brusca fa le prove con l’esplosivo che sarebbe servito per la strage di Capaci

Messina Denaro, poi, aveva un compito preciso, in quella guerra, che si può riassumere con questo ordine: sparare alle spalle di chi fugge. Il suo compito cioè era quello di non permettere defezioni, all’interno di Cosa nostra, rispetto alla strategia stragista. Ecco, Messina Denaro custodisce questo tipo di segreti.

Il segreto

E poi, c’è una terza cosa che va detta. Messina Denaro non custodisce gli ultimi segreti sulle stragi, perché è lui il “segreto”. Ancora una volta, i fatti, il territorio, le carte parlano. Ed è incredibile, oggi, notare come Matteo Messina Denaro fosse un killer e un capomafia già a trenta anni nel pieno del suo potere, ma assolutamente sconosciuto alle forze dell’ordine, ignoto alla magistratura, mai “nociuto”. Il suo alter ego palermitano, Giuseppe Graviano, ad esempio, in quegli stessi anni era già latitante. Messina Denaro non aveva fatto un giorno di galera. I primi “pentiti” che aiutarono Borsellino, procuratore a Marsala, nel ‘90 - ‘91, a ricostruire la mappa della mafia trapanese e del Belice, non fecero mai il suo nome. Mai un giorno di galera, mai una misura di prevenzione, un interrogatorio. Nulla. Sarà infatti latitante solo nel ‘93.

Ricercato in ambito internazionale solo dal ‘94. Il suo profilo criminale, la sua caratura, emergeranno solo negli anni, quando altri pentiti (Sinacori, Geraci, Patti) racconteranno davvero chi era, e cosa aveva combinato. Ma sarà già troppo tardi, per un fuggitivo che oggi sembra imperdibile. Come sia stato possibile tutto ciò, è la vera domanda da farsi, a proposito di quegli anni. Come sia stato possibile questa impunità alla luce del sole, questo agire quasi sfrontato, questo muoversi per l’Italia ad organizzare attentati e procurare esplosivo. Questo è il vero segreto. E la risposta potrebbe non piacere.

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