Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni, a cura dell’associazione Cosa vostra. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata a Trame, festival dei libri sulle mafie di Lamezia Terme, con 15 articoli sui temi al centro degli incontri del Festival.

Il lockdown è stata una gigantesca parentesi che ha rinchiuso tutti, e un problema ancora più grande per i ragazzacci del carcere minorile in cui – in quel periodo - tenevo il mio laboratorio di scrittura rap. In un ambiente così fisicamente ristretto, in una vicinanza così imposta, pensate che ossimoro tremendo possano essere state le norme di distanziamento, piovute addosso ai giovani come l’ennesima regola incomprensibile tra le tante che sono costretti ad osservare.

Da un giorno all’altro, il mio corso e tutte le altre attività sono state sospese. Viste le cruente e drammatiche rivolte scoppiate in alcune carceri per adulti, la sicurezza è stata rafforzata (ma, per fortuna, è stato rafforzato anche il supporto psicologico). I colloqui con i parenti sono stati interrotti. I ragazzi si sono trovati rinchiusi a fissare il soffitto senza niente da fare se non abbandonarsi alle paranoie ogni volta che il compagno di cella faceva mezzo colpo di tosse.

Appena è calata la sera, è iniziata la battitura, che è la forma più comune di protesta all’interno di ogni prigione e consiste nello sbattere qualsiasi oggetto contro le sbarre o il blindo, creando – se tutti partecipano attivamente – un rumore infernale, continuo, che non può essere ignorato.

E, in effetti, la battitura qualche effetto lo ha sortito. I ragazzi che presentavano sintomi sospetti sono stati testati, risultando per fortuna negativi. I colloqui con le famiglie sono stati permessi via Skype e, quando i genitori non avevano computer o smartphone a disposizione, si è riusciti perfino a procurarne un paio. La situazione è rimasta tesa per parecchie settimane, ma niente a che vedere con i casi drammatici successi in giro per l’Italia.

Io sono riuscito, tramite un’educatrice, a contrabbandare alcuni video messaggi al mio gruppo, in cui un po’ parlavo di rap e un po’ raccomandavo di stare calmi visto che, in caso di intemperanze, i primi a pagarne amaramente le conseguenze sarebbero stati loro. Quando, finalmente, i cancelli si sono riaperti per me, ero impaziente di capire cosa avrei trovato.

Alla guardiola all’ingresso ho incontrato l’agente di sempre, che anche stavolta mi ha chiesto il documento. Dopo averglielo consegnato, mi ha dato da compilare l’autocertificazione Covid. Ho scritto, ho firmato, gliel’ho passata. Ha scosso la testa: «Manca il numero del documento!», «Ma… il documento l’ho appena dato a lei! Non è che me lo ricordo a memoria…». Mi ha ridato la carta d’identità elettronica, ha atteso che ne trascrivessi i dati e poi si è ripreso tutto con un sospiro esasperato. Poi si è contorto sporgendo solo il braccio con il termometro a infrarossi per misurarmi la temperatura e mi ha aperto il cancello. Per una volta, nessuna perquisizione.

Il bar che si trova all’ingresso è rimasto chiuso parecchi mesi, ma la signora al banco – ormai vecchia amica - sembrava più preoccupata per me: «E quando ricomincerai a fare concerti?». Non le ho detto che stavo scrivendo un libro che parla anche di lei, e che sarebbe uscito da lì a poco (nda: il mio “Barre – Rap, Sogni e Segreti in un Carcere Minorile” è stato pubblicato quest’anno). Il motivo dell’omissione è che a prendere il caffè c’erano anche un paio di assistenti di polizia penitenziaria e non volevo che la notizia del libro li mettesse sulla difensiva nei miei confronti. Quindi ho sorriso, le ho risposto che in qualche modo avrei fatto e le ho chiesto notizie della salute e della sua gamba malandata, al cui femore si era dovuta far impiantare una protesi qualche mese prima. Va bene, mi ha risposto. Purtroppo mamma sua non tanto. Il Covid? No, quello per fortuna no. Però aveva sempre le palpitazioni, l’hanno dovuta portare in ospedale, dove le hanno messo “un playmaker”. “Un peacemaker”, ha corretto uno degli agenti, con l’aria di chi ne sa. Io, ovviamente, ho evitato a mia volta di correggere lui, e per un attimo mi è venuta in mente l’immagine di un minuscolo John Stockton nel cuore dell’anziana signora, impegnato a gestire battiti e flussi sanguigni con la stessa maestria con cui smazzava assist a Karl Malone.

Ho trovato i ragazzi intristiti, chiusi in comportamenti ripetitivi. Ancora più carcerati di come li avevo lasciati. Isaia ha una brutta orticaria sul braccio destro, e non smette di grattarsi. Hicham è scappato dalla comunità dove l’educatrice era riuscita a farlo assegnare. Nella totale clausura di aprile 2020, quando tutta l’Italia stava barricata in casa, ha avuto la brillante idea di cercare di prendere un treno alla stazione del paesino dove appunto aveva sede la comunità. I carabinieri lo hanno identificato e riportato in carcere per direttissima.

I loro rap sono diventati più tristi, più chiusi. Le speranze di cui erano carichi – a volte ingenue ma tremendamente reali – sono state sostituite dal nichilismo e dai “lasciatemi in pace”. Ricominciare, in qualche caso, è stato più difficile che avviare un percorso da zero.

Mi sto facendo aiutare da Abbas, che è stato trasferito da poco ma ha un carattere aperto ed è benvoluto da tutti, e in più mi dice che fa già rap da un po’. Gli chiedo di farmi sentire uno dei suoi testi, e lui inizia subito con una bellissima strofa che parla di libertà e futuro. A un certo punto si rende conto che la sto cantando insieme a lui: il mascalzone sta spacciando come frutto della sua creatività un testo che i suoi ex compagni di pena del vecchio IPM (Istituto Penale per Minori) avevano scritto insieme a me l’anno precedente!

Quanto al sottoscritto, scrivo queste parole appena tornato da Cagliari, con gli occhi ancora pieni della bellezza dei luoghi, ma col cuore carico di sentimenti contrastanti. Grazie all’associazione culturale Malik, che svolge un formidabile lavoro sul territorio, ho infatti avuto l’occasione di conoscere i ragazzi del minorile di Quartucciu, una paurosa fortezza di sbarre e mura ciclopiche nata come carcere di massima sicurezza e, in mezzo ai dubbi di molti, riconvertita in IPM. Il mio compito era scrivere un rap insieme ai giovani reclusi su un argomento doloroso e delicato: la morte di Alessandro, un loro compagno di pena precipitato dal quarto piano durante un permesso premio nel giorno del suo compleanno.

Alessandro era una promessa del rap: faceva parte di una crew nata in uno dei quartieri più difficili della città che, dopo i primi successi in terra sarda, ultimamente si sta facendo conoscere e apprezzare anche in continente. Quindi dedicargli dei versi in rima era la scelta più naturale, e i ragazzacci si sono prestati con tutta la passione e l’impegno che mi aspettavo da loro. Come accade sempre, quando li ho messi davanti al microfono è venuto fuori il lato più vero e nascosto del loro carattere: Giovanni, che è il più sfrontato e sempre con la battuta pronta, si è imbarazzato e ha avuto bisogno di ripetere più volte le strofe prima di azzeccarle. Ibrahim, che forse è stato quello più segnato dalla morte del compagno, aveva studiato tutto a memoria perfettamente, ma per la troppa passione si accalorava, correva troppo e si scordava di respirare. Luca, il più silenzioso e taciturno, ha stupito tutti con la sua voce ferma ed il perfetto senso del ritmo. Quando gli ho fatto i complimenti l’ho visto sorridere per la prima e unica volta.

La canzone è venuta bellissima, ma per adesso dovrete fidarvi della mia parola, visto che passerà ancora un po’ di tempo per concludere il mix della traccia, montare il videoclip e ottenere i permessi necessari alla pubblicazione.

Così come gli artificieri sanno che gli esplosivi denotano in modo più devastante in ambienti ristretti e sotto pressione, anch’io mi sono reso conto che l’impatto della pandemia e della morte ha colpito i ragazzi dietro le sbarre molto più che noi liberi. Isaia, Hicham, Abbas, Giovanni, Ibrahim, Luca: questi non sono i loro veri nomi, perché ovviamente voglio e devo rispettare la riservatezza intorno alle loro giovani vite e alle loro storie difficili. Ma le loro storie sono vere, così come la loro voglia di esprimersi in rima e il loro disperato bisogno di umanità e normalità.

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