Il cuore è uno zingaro e va. Questa volta fino all’Olimpico per la finale di Coppa Italia tra Bologna e Milan. A Vincenzo Italiano il cuore glielo hanno spezzato già tre volte. L’ultima un anno fa, sempre di questi tempi. E meno male che maggio era il mese dell’amore. Invece il calcio lo tradì. Ai supplementari, contro l’Olympiacos. La sua Fiorentina era in finale di Conference League. «Anche io ho un cuore e vivo di emozioni», disse dopo con l’aria spaesata. In malo modo era finita anche contro il West Ham (sempre in Conference League un anno prima) e pure contro l’Inter, in Coppa Italia.

Tre finali perse in due anni, quasi un record. Lasciò Firenze per cercare un altro porto, un’altra storia, un’altra avventura. Eh, ma in Serie A chiodo scaccia chiodo non funziona. L’allenatore più splendido&perdente degli ultimi anni (non se la prenda, per carità) ha invece trovato la squadra giusta sotto i portici e le torri. That’s amore.

«Mi davano del matto – ha raccontato Italiano dopo avere scelto il Bologna – mi arrivavano messaggi con scritto “Mission Impossible”. Questa era la panca più bollente dell’universo. Che cosa rispondevo? Dopo aver parlato con tutti i componenti della società mi sono tranquillizzato».

È nato qualcosa di speciale tra Bologna e Italiano e se stanno insieme ci sarà un perché. Ma ne sapremo di più mercoledì 14 maggio, quando a distanza di cinquantuno anni i rossoblù torneranno a giocarsi la possibilità di alzare un trofeo. Da Bologna city si sono spostati con i treni e i pullman in 30.000. In tribuna ci saranno Roby Baggio e Beppe Signori, due che la città delle torri l’hanno fatta sognare in altro modo e altri tempi.

E poi: Cesare Cremonini, Luca Carboni, Pierferdinando Casini e tanti altri vip che non iniziano con la lettera c. A Bologna hanno messo i maxischermi, hanno fatto spot celebrativi sui social. Dal presidente Mattarella (che ha ricordato il mitico squadrone che tremare il mondo fa anche se l’ultima Coppa Italia il Bologna l’alzò nel 1974), Italiano (emozionatissimo) ha detto: «Porto qui l’entusiasmo di tutta la città».

Il signore del turn-over

Non è dunque solo una finale nel cuore della capitale, per Italiano è una nuova occasione. Per vincere sì, ma anche per chiudere un cerchio. E riscattare tre cuori infranti, tre medaglie d’argento che non fanno collezione. Questa volta non c’è solo il peso della storia sulle spalle, ma il vento dell’entusiasmo a soffiargli addosso un po’ di fortuna. Ha una squadra giovane, affamata, pronta a seguirlo in tutto. Persino nei suoi dogmi e nelle sue ossessioni più oscure: possesso, verticalità, pressing alto, rotazioni continue. Alla Fiorentina fecero il conto: aveva cambiato 142 formazioni in tre anni. Uno sproposito.

Al Bologna, a febbraio, ne aveva già messe in campo 34 diverse tra campionato, Champions League e coppa nazionale. Oggi il conto sfiora la quarantina. «Nessuno si sente mai escluso», ha spiegato una volta. Quasi un claim. A Bologna lo ripeteva sempre anche Thiago Motta, l’allenatore che per un po’ (poco a dire il vero) è stato la sua ombra e il suo confronto. L’italo-brasiliano cambiava capitani coraggiosi e formazioni a ogni partita, ruotava perfino i portieri. Ma la tensione nell’aria era un’altra, si sentiva che era tutta elettricità. Italiano è stato capace di cambiare anche questo, di distendere i pensieri e alimentare le ambizioni.

Dentro lo spogliatoio c’è armonia. Lollo De Silvestri, il veterano del gruppo, lo spinge sotto la curva ogni volta che si vince. E Riccardo Orsolini ha imparato a giocare con il sorriso per davvero, tant’è che quando fa gol corre a spintonare Italiano alla faccia delle gerarchie.

Quello di Bologna è un altro Italiano, eppure è sempre lui. Sarrismi, guardiolismi, sacchismi: poteva imitare gli altri e invece ha trovato il suo credo. Il gioco di Italiano è arioso e bello, diverte. E quando c’è da spazzare il pallone in tribuna neppure lui, principe degli esteti, si formalizza più.

Lo ha imparato sulla sua pelle. Lo ha imparato cadendo, sbagliando, perdendo. Ma non ha mai perso se stesso. Il fondamentalista del bel gioco ha smussato gli angoli, ma senza tradire i suoi principi. E Bologna lo ha capito subito che in panchina non c’era un profeta, ma un artigiano.

Il calcio di Italiano non è soltanto teoria, è metodo, ripetizione, maniacalità. Lo spogliatoio non lo subisce, lo assorbe. Non a caso tutti hanno giocato. Nessuno si è sentito escluso, l’intenzione di partenza è stata mantenuta. Da Beukema a Castro, da Fabbian a El Azzouzi.

In stagione il Bologna ha ruotato almeno 22 titolari. È successo qualcosa. Forse non solo dal punto di vista tecnico, ma sotto il profilo umano. Perché tra Italiano e Bologna si è acceso un legame più profondo. Forse per l’energia della città, che non si prende troppo sul serio ma sa riconoscere chi lavora bene. Forse perché entrambi arrivavano da ferite aperte.

I sigari di Conceiçao

Dall’altra parte c’è il Milan, non proprio una squadra qualunque. Cinque giorni fa, in quella specie di preview della finale che è stata la partita di campionato, la squadra rossonera aveva mostrato i muscoli e vinto (3-1 a San Siro).

Ma le finali, si sa, fanno storia a sé. Il luogo comune più vero che ci sia. Questo Milan-Bologna sarà un evento unico. Anche Conceiçao, ben lontano dall’immagine del chico con il sigaro cubano a mezze labbra e la ballata latina mostrata qualche mese fa, si è emozionato davanti al presidente della Repubblica: «L’Italia per me è una seconda casa. Sono arrivato qui nel 1998, è stato un viaggio. Giochiamo per rispettare questo sport e questo paese».

Dicono che il viaggio conti più della meta, ma è vero solamente in parte. Lo sport è fatto di approdi, gli orizzonti servono solamente a immaginarsi nuove sfide. Ma è solo quando alzi i trofei che ti senti al sicuro. Lo sa bene il tecnico portoghese che dopo una settimana dal suo arrivo era stato capace di vincerne uno (la Supercoppa). Cuore matto Conceiçao, sembrava l’inizio di una storia rock. È durata appena qualche mese, poi anche il Milan ha avuto un calo nel gioco, nei risultati, nelle aspettative.

Agli allenatori succede: arrivano in un posto, danno la scossa, poi l’effetto cala. Conceiçao era arrivato per sostituire Fonseca, che aveva gentilezza e sensibilità e una certa dose di charme. Belle cose, ma nel calcio è richiesto l’ardore e certi giorni pure lacrime e sangue. Per il portoghese la finale servirà anche a puntellare il futuro: una vittoria potrebbe garantirgli la permanenza sulla panchina del Milan anche il prossimo anno.

Era stato lo stesso Conceiçao a dirlo appena arrivato: «Abbiamo poco tempo, ma non voglio scuse. I giocatori devono imparare in fretta cosa serve a livello individuale e collettivo per essere una squadra forte. Per vincere le partite bisogna avere testa fredda e cuore caldo».

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