Borgo Mezzanone (Fg) – Moussa ripete due parole come un mantra: «Papier» e «travail». Per diverse migliaia di braccianti sono le vie di fuga dallo sfruttamento lavorativo e un’alternativa alla vita del ghetto. Da tempo è uno schiavo nelle campagne vicine a Borgo Mezzanone. Per ricordare il suo anno di nascita deve farsi aiutare dalla carta d’identità che estrae dal portafoglio: 1989.

«Papier» e «travail» hanno invece cambiato la vita di Mohammed Sowa, gambiano, quarant’anni. Per due ha riparato auto, furgoncini e motorini dei residenti del ghetto. Ora fa il meccanico a Foggia, ha un regolare contratto di lavoro e una casa in affitto che lo ha portato fuori da quel “non luogo”.

I tempi in cui si alzava alle 4 del mattino per raccogliere pomodori e olive in giro per la capitanata a pochi euro l’ora non sono così lontani. «Caldo o non caldo, lavoravamo tante ore lo stesso», dice Mohammed che ora nel ghetto insegna a Patrick e Max a fare il suo stesso mestiere: «Voglio solo aiutare a far uscire da qui più gente possibile». Lo sa bene: il ghetto gli ha portato via uno dei suoi fratelli. Si chiamava Ibrahim ed è morto nel gennaio del 2023 insieme alla sua fidanzata, Queen Rock, asfissiato dal monossido di carbonio dopo che per scaldarsi avevano acceso un piccolo braciere. «È morto lì», dice Mohammed indicando un appezzamento di terra dove sopra è parcheggiata una macchina malridotta.

A meno di due metri da lì sorge la Casa della pace. Una struttura della Flai Cgil che fornisce un sostegno concreto ai lavoratori. Qui si fa sindacato di strada. Li informano dei loro diritti, insegnano loro la lingua italiana e li accompagnano nell’iter burocratico dell’acquisizione dei documenti. Prima di vedere la bandiera del sindacato dentro il ghetto è passato molto tempo. Costruire un rapporto di fiducia è difficile.

A complicare le cose è la volatilità delle presenze. I braccianti attraversano il campo per qualche anno prima di andare altrove e poi magari, spesso, ritornarci dopo tanto tempo. È la transumanza dei braccianti, che sposta ogni anno migliaia di persone da una regione all’altra dell’Italia.

«Tutta l’Africa è qui», dice Rice un altro abitante di questa terra parallela. L’estroversione di Rice è esplicita anche nel suo abbigliamento. Pantaloncini corti, occhiale da sole e borsellino bianco. Ha voglia di parlare. «Così lo raccontate alla vostra gente», dice alla delegazione giunta fin qui composta da europarlamentari, dalla segretaria della Confederazione europea dei sindacati, Esther Lynch, dal segretario generale Federazione europea dei sindacati dell’agroalimentare (Effat), Enrico Somaglia, e dai dirigenti della Flai Cgil territoriale e nazionale.

Convivenza

Mohammed passeggia per il ghetto a passo lento, complice anche la temperatura di 38 gradi. Il ghetto inizia a popolarsi di centinaia di persone che hanno appena concluso il lavoro nei campi. Stringe mani e concede abbracci con il sorriso stampato. «Ho aiutato tanta gente, mi conoscono tutti. Riparavo macchine e chiedevo poco in cambio».

Ma c’è anche chi gli dice senza mezzi termini che accompagnare una delegazione così numerosa altera gli equilibri di una comunità non abituata ad avere attenzioni diverse da quelle mediatiche occasionali. Sono anni che tra questi ammassi di lamiere e oggetti abbandonati la vita è la stessa. Regna un’autogestione tenuta insieme dai leader che gestiscono il centro. Il ghetto è diviso in quartieri su base etnica. C’è un servizio d’ordine informale per mantenere una “pacifica convivenza”. Tra le baracche c’è chi ha tirato su un alimentari, chi vende scarpe e abbigliamento, chi ripara motorini, chi fa il macellaio e chi cucina la carne alla brace vicino ai roghi tossici della spazzatura.

Una bottiglietta d’acqua costa 30 centesimi, un caffè 50, un chilo di carne dai 6 ai 7 euro. Ma c’è anche un mercato di droga e prostituzione. Una baracca minuscola, con un materasso e una lamiera sopra la testa costa 20 euro al mese. Soldi che finiscono spesso nelle mani dei caporali, gli intermediari che forniscono forza lavoro ai produttori agricoli. L’acqua arriva ogni tre giorni, se tutto va bene. E quando finisce, i braccianti riempiono le taniche nel Cara confinante, il Centro di accoglienza per richiedenti asilo, da dove il via vai con il ghetto è continuo.

In questa terra migrazione e sfruttamento si intrecciano. Per questo, sottolinea Enrico Somaglia dell’Effat, c’è bisogno di un «cambiamento profondo della politica migratoria europea», affinché «tutti i lavoratori vengano trattati con pari dignità e diritti, indipendentemente dallo status giuridico o dal paese di origine». Al momento non c’è «la volontà politica di superare l’attuale sistema perché questo modello serve all’industria agroalimentare basata sullo sfruttamento della manodopera a basso costo», dice. Ora la sfida è portare la lotta contro il caporalato anche a Bruxelles, implementando una direttiva contro l’intermediazione illecita.

Decreto Flussi e Pnrr

In settimana il governo Meloni ha approvato il decreto Flussi che prevede dal 2026 al 2028, 267mila ingressi per i lavoratori stagionali nel settore agricolo e turistico su 497mila totali. Un paradosso se si considera che nel paese ci sono circa 200mila lavoratori irregolari impiegati in agricoltura, come indicano le stime dell’Osservatorio Placido Rizzotto.

Diverse migliaia di loro sopravvivono in baraccopoli, in condizioni vergognose. Circa 5mila sono solo a Borgo Mezzanone, nel periodo della raccolta. Eppure un modo per superare questo insediamento tossico di baracche, rottami e rifiuti era stato pensato. I soldi erano stati trovati nel Pnrr, che aveva messo a bilancio 200 milioni di euro per il superamento dei ghetti. Cinquantaquattro quelli previsti per Borgo Mezzanone.

«Il governo avrebbe potuto agire, ma ha scelto di non farlo. L’Italia sta rischiando di perdere, in tutto o in parte, i 200 milioni previsti dal Pnrr per il superamento dei ghetti, neanche un euro è stato speso», dice il segretario della Flai Cgil Giovanni Mininni. E nel campo la vita è scandita come sempre dalla fatica e dall’alienazione.

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