Una madre che vende, un affiliato che compra al costo di 10 mila euro. Quello che viene smerciato, però, come se fosse un’auto o un oggetto è in realtà un neonato. Un processo in corso presso la corte d’Appello di Napoli fornisce i dettagli di questa compravendita dove affiora l’ombra della camorra, quella del clan Rinaldi, egemone a San Giovanni a Teduccio, nella zona orientale della città partenopea.

Oltre le responsabilità penali che dovranno ancora essere accertate emerge con chiarezza un dato inquietante: la disponibilità di bambini che diventano oggetto di trattative e di cessioni e che crescono in contesti votati alla violenza e alla privazione.

Si sono presi un bimbo

Il processo d’appello deve accertare la presunta responsabilità proprio del boss Ciro Rinaldi, esclusa dalla sentenza di primo grado contro la quale la procura di Napoli ha presentato ricorso chiamando in causa il contributo dei collaboratori di giustizia. Ma gli elementi che sostanziano questa storia sono già stati definiti con la condanna in via definitiva della madre naturale e dei nuovi genitori del neonato che oggi ha quasi dieci anni.

Nel 2019 la vicenda è stata definita con una sentenza di condanna, non appellata, nei confronti di madre naturale e dei genitori per alterazione di stato e falso in atto pubblico. Nel 2013 avviene il ‘passaggio’ del neonato che viene registrato come figlio della madre naturale e dell’affiliato che diventa così padre e porta in famiglia l’atteso erede. L’alterazione dello stato civile del bambino è il reato, la violazione del codice penale, ma la facilità con la quale si ‘scambiano’ neonati è il tema che attraversa questa storia.

La signora rom già in passato aveva dato alla luce bambini che poi aveva ‘ceduto’ a famiglie che ne assumevano la genitorialità. Ha sempre negato il passaggio di denaro, ma quando è stata ascoltata in tribunale ha raccontato una storia falsa quella del rapporto sessuale con il padre del bambino in quanto prostituta, fatto smentito dal test del dna che ha provato che l’affiliato non è il padre del piccolo.

Di soldi e compravendita parlano tre collaboratori di giustizia e la tesi è confermata dal tribunale. Non c’è solo la cessione del piccolo, ma anche le condizioni nelle quali è costretto a vivere in un contesto di privazioni e violenza, la madre (due anni prima dell’arrivo del piccolo) viene ferita in un agguato di camorra, il padre attualmente è in carcere, celebrato a distanza nei video pubblicati sulla pagina social della famiglia. «Quello per questo gli pigliò il bambino…sperando che si stava sopra a casa. Tu non hai capito niente allora», si dicono al telefono conoscenti della coppia. Ricorre l’espressione «si sono presi» come se fosse un bambolotto.

Nella sentenza viene descritto un ambiente familiare segnato da sopraffazione. «La scelta di vivere con quell’uomo, peraltro violento che non esitava a picchiarla e a colpirla proprio nel punto dove la donna aveva un colpo, riferendosi alla parte del corpo ove la donna era stata attinta da colpi da arma da fuoco», si legge nelle motivazioni della sentenza di primo grado. L’affiliato che diventa padre è legato al clan Rinaldi, aiuta il boss Ciro Rinaldi, detto mauè, ne è un fidato sodale.

La moglie dell’affiliato è stata destinataria di un agguato di camorra nell’ambito della faida contro un altro gruppo criminale cittadino, quello dei Mazzarella. In questo contesto si muove il presente e il futuro di questo bambino che ha un nome all’anagrafe e un altro con il quale viene chiamato in famiglia e presentato ai parenti.

A rivelare per la prima volta dei soldi per l’acquisto del bambino è stato il collaboratore di giustizia Giorgio Santoriello che parlando del clan e dell’affiliato ricorda ai pubblici ministeri che «R.M. sta crescendo nella sua abitazione un bambino che non è figlio suo. Questo bambino è stato comprato da alcuni romeni e i soldi, 10 mila euro, sono stati dati da Ciro Rinaldi».

Ora sulla responsabilità di Rinaldi i giudici di primo grado si sono espressi assolvendo il boss, difeso dagli avvocati Salvatore Impradice e Raffaele Chiummariello. La procura ha fatto ricorso, ma i legali ribadiscono l’estraneità dell’assistito ed evidenziano che l’appello della pubblica accusa si basa su elementi, le parole dei collaboratori di giustizia, già vagliati e ritenuti insufficienti durante il primo grado di giudizio. Ma cosa dicono i pentiti?

Le parole dei pentiti

Sorrentino spiega i rapporti intimi tra il boss Ciro Rinaldi e l’affiliato R.M., quest’ultimo si è addirittura tatuato sul braccio un cuore con il numero 46 e la scritta Maue’ in onore al capo. Racconta che il bambino è stato battezzato dal boss, che è stato proprio Rinaldi a mettere in contatto l’affiliato con una signora che conosceva una coppia rom e che gli avrebbero fornito i soldi necessari all’acquisto del neonato, 10 mila euro.

La circostanza della compravendita viene riferita anche da altri due collaboratori di giustizia, Vincenzo Amirante e Luigi Gallo. Ciro Rinaldi è libero nel 2014 quando battezza il piccolo, in quegli anni aveva appena stretto un’alleanza con i clan emergenti del centro storico di Napoli, come i Sibillo. Il boss finisce in carcere nel 2018 accusato di un duplice omicidio, tra le sue vittime Ciro Colonna, totalmente innocente e morto ammazzato in un agguato.

Quando temporaneamente viene scarcerato, la coppia festeggia con fuochi e botti la scarcerazione del boss e padrino del bambino. Emerge dalle intercettazioni che vengono disposte sulle utenze dell’affiliato e della sua consorte. Per il giudice di primo grado le dichiarazioni dei collaboratori sono carenti, insufficienti per costituire una prova del concorso nel reato del boss Ciro Rinaldi.

La procura affida a 18 pagine, firmate dal pubblico ministero Antonella Fratello, i motivi di ricorso contestando al tribunale «una motivazione carente, contraddittoria e illogica» nella valutazione delle parole dei collaboratori di giustizia. Secondo la pubblica accusa Rinaldi ha avuto un ruolo «di organizzatore e finanziatore dell’affare attivando i propri canali di capo di una delle organizzazioni più note in territorio campano».

La procura ricostruisce le dichiarazioni dei pentiti, già bocciate dal tribunale, partendo da quelle di Giorgio Sorrentino, parente dell’affiliato e quindi a conoscenza delle modalità con le quali è diventato padre comprando il bambino grazie all’intercessione del boss. Anche in un’altra occasione, successiva alla compravendita oggetto del processo, allo stesso Sorrentino sarebbe arrivata offerta analoga per un altro parente che aveva lo stesso problema dell’affiliato: non poteva avere figli.

Nel processo d’appello saranno ascoltati i collaboratori, le cui testimonianze fino a questo momento sono state solo acquisite agli atti. Di certo c’è il passaggio di mano di un bambino, l’alterazione dello stato civile del neonato, la frequente pratica già precedentemente avvenuta e il contesto di violenza e privazioni nei quali quel bimbo è cresciuto. Una storia di infanzia negata all’ombra del crimine organizzato.

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