Punire non funziona, come si affrontano i bulli a scuola

Sul tema del bullismo e delle sue varianti si sono versati fiumi di inchiostro e oceani di parole, ma l’attenzione deve comunque rimanere alta, perché il fenomeno esiste ancora, trasformato, ammodernato, aggrovigliato con le tematiche di genere, provenienza, culture differenti, disuguaglianze. Esiste ormai una letteratura scientifica, psicologica, pedagogica, sociologica che ne ha esplorato i vari aspetti e ha fornito alle scuole strumenti validati di intervento, sia di dimensione sistemica e globale che più focalizzati su specifiche dinamiche carnefice-vittima, sul sistema classe, sulla condizione psicologica del carnefice. Tra i tanti studi scientifici che propongono e sperimentano approcci globali e multi-componenziali fa ancora scuola il testo di Gini e Pozzoli, Gli interventi anti-bullismo, edito da Carocci nel 2018. Si sono attivate anche forme di certificazione delle scuole bulli-free, assegnata alle scuole che dimostrino di attivare misure di prevenzione e contrasto. Attività che costruiscono il lento filone dell’evoluzione delle competenze relazionali, psicosociali e organizzative del sistema scuola. Recentemente però si è fatto strada l’altro filone, quello repressivo securitario, che vuole usare i dispositivi di deterrenza basati sulla punizione dei carnefici. Tale visione si intreccia con l’irrigidimento autoritario, fondato sulla proibizione, rispetto all’uso del cellulare a scuola, sul dissenso all’esame di Stato, ecc. Non credo sia esagerata l’analogia coi dispositivi di controllo repressivo esaminati dal filosofo Michel Foucault nel suo Sorvegliare e punire (Einaudi, 1975); e limitarsi a tacciare di nostalgia ideologica il collegamento tra le nuove misure punitive del ministero dell’istruzione (e del merito) e quei dispositivi autoritari ne oscura l’evidente involuzione democratica. Le visioni punitive e proibitive hanno dimostrato scientificamente la loro inefficacia e dannosità. Ci sono infatti buone evidenze che le “punizioni”, intese come misure punitive/separative (sospensioni, espulsioni, “zero tolerance”), non riducono il bullismo in modo affidabile e possono avere effetti collaterali negativi. Il documento dell’Apa Zero Tolerance Task Force (2008) conclude che, nonostante decenni di applicazione, ci sono poche prove a sostegno delle politiche di “tolleranza zero” e i dati disponibili contraddicono i loro principi. Il documento aggiunge, inoltre, che questo tipo di misure può avere ricadute negative. Le più ampie meta-analisi sui programmi anti-bullismo mostrano che ciò che funziona sono interventi multicomponenti e di clima scolastico (approccio che coinvolge tutta la scuola, regole condivise, coinvolgimento dei genitori, lavoro in classe, apprendimento socio-emotivo), con riduzioni modeste ma significative di prepotenze e vittimizzazione (Gaffney et al., 2019; 2021; ma, anche, nel panorama italiano, i numerosissimi studi di Gini et al.). Organismi internazionali (Unesco, 2017) raccomandano approcci sistemici globali e di gestione positiva dell’aula, in contrapposizione alle risposte punitive che non emergono come efficaci nelle riduzioni nazionali del bullismo. Anche in ambito pediatrico e disciplinare più ampio, l’uso esteso di sospensioni/espulsioni è associato a esiti scolastici e comportamentali peggiori e non mostra prove solide di deterrenza (Jain, S. K., Council on School Health, & American Academy of Pediatrics, 2024) Sembra invece che proibizione e punizione riscuotano molto consenso (anche in autorevoli intellettuali), sulla base del buon senso e della tradizione dei “no che fanno crescere” o del valore evolutivo della castrazione del desiderio di “avere tutto”, in nome del più salubre “non-tutto”, e comunque cavalcando il senso di impotenza degli adulti, la loro rabbia, la loro solitudine, il loro malessere. Ma davvero non esiste una via alternativa all’impotenza e all’autoritarismo? Una terza via? Credo che la si possa immaginare e praticare prendendo molto sul serio la cosiddetta educazione civica. Se davvero esiste un’emergenza cellulari/social/brainrot, allora dobbiamo affrontarla tutti insieme, attivando i dispositivi “civici” della democrazia partecipata. Entrando in classe e dicendo «Ragazzi/e abbiamo un problema, grave». E dunque fermiamo la corsa frenetica dei “programmi da fare”. Studiamo insieme, ci documentiamo, sperimentiamo, coinvolgiamo gli adulti fuori dalla scuola. Dobbiamo essere disposti a bloccare la normale attività didattica finché non troveremo insieme, ragazzi/e, insegnanti, adulti, ecc. un tentativo di soluzione. Condivisa, costruita dal basso, faticosa, conflittuale, da sperimentare, ma vera, autentica. Carte costituzionali costruite insieme non decaloghi di regole che proibiscono, puniscono. Se è un’emergenza il bullismo, la violenza di genere, l’immersione nei social, le varie forme di disagio, cominciamo noi adulti a mettere via il cellulare e a rimboccarci le maniche.