La Cina diventata leader nell’esplorazione spaziale, nella produzione di auto elettriche, nelle biotecnologie, non parteciperà nemmeno stavolta ai Mondiali di calcio, quelli di Canada-Messico-Stati Uniti 2026, allargati da 32 a 48 squadre. Per il ventiquattresimo anno consecutivo fuori dal calcio che conta. La prima e unica comparsa rimane quella del 2002 – in Giappone-Corea del Sud – quando rimediò nove gol senza segnarne uno.

Si dirà: che c’entra il pallone con il progresso tecnologico, industriale, scientifico? C’entra, perché Pechino anche nel calcio si è posta l’obiettivo di diventare una “potenza globale” entro il 2050. Al momento la Fifa la colloca al 94° posto, dietro la Siria devastata dalla guerra e davanti al Benin.

E pensare che nel 2011, dopo aver guidato l’organizzazione delle Olimpiadi di Pechino e un anno prima di essere eletto segretario generale del partito comunista, Xi Jinping aveva lanciato uno dei suoi primi grandi piani proprio nel calcio. Uno schema in tre fasi: partecipare al Mondiale, ospitare il Mondiale, vincere il Mondiale. Un sogno cinese (zhōngguó mèng) infranto sulla più umiliante delle sconfitte, subita (1-0) una settimana fa nella penultima partita di qualificazione, contro l’Indonesia, avversario non irresistibile. Ultimi, con due vittorie e sei punti, a un turno dalla fine di un girone con Giappone (sconfitta per 7-0 a settembre), Australia, Arabia Saudita, Bahrain e Indonesia. Era difficile fare peggio.

Il sogno di Xi

Le sensazioni prevalenti sono delusione, fallimento e umiliazione, un sentimento che da queste parti ha un valore storico-politico rilevante. Con l’Indonesia l’ultima sconfitta risaliva a 68 anni fa. I tifosi si sono scatenati sui social, sfogandosi anche contro Branko Ivankovic, il settantunenne allenatore croato che nel 2006 aveva portato l’Iran ai Mondiali, assunto quando il collega serbo Aleksandar Jankovic non era riuscito a far superare alla Cina la fase a gironi della Coppa d’Asia.

«Con i soldi spesi per la nazionale si potevano costruire dieci portaerei» dicono i più arrabbiati. Vale davvero la pena investire miliardi di yuan nel pallone? La risposta è sì. Nel paese si contano 200 milioni di appassionati, giocano in ogni quartiere e città, nel fine settimana seguono più la Premier britannica che la locale Super League. La “passione” di Xi per il calcio rientra nel tentativo di rafforzare il soft power della Cina: una nazionale competitiva ne accrescerebbe l’appeal globale.

Tra le tante prese di posizione dopo la ferale sconfitta contro l’Indonesia spicca quella secondo cui i calciatori toccherebbero il pallone con lo stesso terrore di sbagliare con cui gli studenti (e prima di loro, per secoli, i candidati al mandarinato) affrontano il gāokăo, l’ultra-competitivo test per l’ammissione all’università. «Il calcio riflette i problemi sociali e politici della Cina. Non è una società libera. Non c’è la fiducia reciproca che permette ai giocatori di passarsi la palla senza preoccupazioni», ha dichiarato Zhang Feng, giornalista e commentatore cinese. Secondo Zhang, «in Cina, più il leader dà importanza al calcio, più la società diventa nervosa, più potere acquisiscono i burocrati e più diventano corrotti».

Campione di mazzette

Il malaffare che negli ultimi anni ha impedito lo sviluppo e l’organizzazione delle società di calcio è complice dell’attuale fallimento. Dopo i proclami del leader massimo, una serie di magnati si sono messi a investire in maniera scriteriata. Nel 2016 lo Shanghai SIPG arrivò a sborsare 60 milioni di euro per il brasiliano Oscar e 56 per quello del suo connazionale Hulk. Molti di questi grandi nomi si sono persi, ricoperti di montagne di denaro in un campionato di infimo livello.

Il simbolo del degrado è diventato Li Tie, ex centrocampista della nazionale 2002, due esperienze nell’Everton e nello Sheffield,  ex ct della nazionale dal 2020 al 2022. Prima di quest’ultimo incarico – così è risultato dalle carte processuali – Li ha intascato mazzette per 16 milioni di dollari come vice allenatore del Hebei China Fortune Club. In cambio riusciva a favorire l’ingresso di alcuni giocatori in nazionale. Era il 2015, i soldi in Cina ancora scorrevano come fiumi. Da simbolo del calcio cinese a testimonial delle campagne di Xi, Li è finito in un documentario sull’anti-corruzione della tv di stato, nel quale ha fatto atto di pubblica contrizione: «Mi dispiace molto. Avrei dovuto tenere la testa bassa e seguire la strada giusta».

Il suo ex capo, l’ex presidente della CFA Chen Xuyuan, l’anno scorso è stato condannato all’ergastolo per aver accettato tangenti per un valore di 11 milioni di dollari.

Fan, non ultrà

Un’ulteriore mazzata è arrivata all’inizio del 2025, quando il Guangzhou Evergrande, otto volte vincitore della Super League, un tempo allenato da Marcello Lippi e Fabio Cannavaro, è stato espulso dal campionato e sciolto, nell’ambito della ristrutturazione del colosso immobiliare che lo controllava.

Il malaffare ha pesato nel suo non-sviluppo, ma ci sono altri fattori che sembrano impedire la crescita del movimento. I risultati delle competizioni olimpiche suggeriscono che i cinesi sono meno portati per gli sport di squadra. Inoltre dai 12-13 anni, quando il talento inizia a manifestarsi più chiaramente, gli adolescenti cinesi – soprattutto maschi – puntano tutto sullo studio in vista del gāokăo che deciderà il futuro professionale, inquadrandoli in università più o meno prestigiose a seconda del voto ottenuto nel test. In una società dove il peso del mantenimento della famiglia ricade tradizionalmente sull’uomo, non è forse un caso che la nazionale femminile abbia ottenuto risultati più lusinghieri: otto volte qualificata ai mondiali, finalista nel 1999, nove volte vincitrice della Coppa d’Asia, l’ultima nel 2022.

Le ragioni dell’umiliazione non stanno solo nel controllo politico e nella corruzione, ma anche nel fatto che per i cinesi il calcio non è ancora una “istituzione”. I fan che vivono gran parte della settimana in vista della partita allo stadio della domenica, quelli che considerano i calciatori dei semi-dei, sono una rarità. Gli stadi spesso sono pieni e le tifoserie calde, ma la partita è solo uno dei tanti momenti di svago disponibili, come una bevuta tra amici al KTV o una gita fuori porta. Non ha la dimensione “totalizzante” percepita a Liverpool, a Napoli, alla Boca, al Real Madrid.

Il traguardo di potenza calcistica globale dista ancora 25 anni. La storia insegna che la lunga ascesa della Cina nasce proprio dal “secolo dell’umiliazione nazionale” (1842-1949).

L’ultima parola non è detta. Assumendosi la responsabilità della catastrofe, Ivankovic ha acceso un po’ di speranza: «Abbiamo portato una generazione più giovane di giocatori che hanno infuso energia alla squadra. A giudicare dalle loro prestazioni, credo che questo team abbia un futuro promettente».

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