Ci siamo. Con un anno di ritardo Euro2020 sta per invadere i nostri schermi e per qualche settimana, forse, prenderà il posto delle cronache Covid. Assieme all’Eurovision song contest, questo è l’unico altro evento col prefisso Euro che se affiancato alla bandiera inglese non suscita noia o scatena insulti.

Ma mentre all’Eurovision 2021 il povero James Newman, che anche questa volta ha perso miseramente non riuscendo a portare a casa manco un voto popolare, gareggiava con l’Union Jack (la bandiera britannica), agli Europei le squadre (nazionali) del Regno Unito che hanno superato le qualificazioni si presentano divise e con bandiere differenti. Inghilterra, Galles e Scozia (l’Irlanda del Nord pare ce l’abbia fatta una volta sola a qualificarsi, nel 2016) come da tradizione vanno in ordine spaiato. Un’anomalia legata alla particolare storia del calcio inglese – che confesso non conoscevo prima di mettermi a scrivere questo articolo. Mancanza mia.

Da un altro punto vista, però, la stranezza britannica sembra essere un’altra forma di “splendid isolation” – per dirla con quel linguaggio politico-diplomatico vittoriano che alla fine dell’800 esaltava l’insularità come fondamenta dei “successi” dell’impero e alla quale Boris Johnson e i suoi non fanno mistero di ispirarsi. Una storica difformità, dunque, tollerata senza particolari obiezioni dagli organi sportivi internazionali, ma che quest’anno marca un nuovo passo.

Se, come una folta schiera di sociologi, antropologi, storici e intellettuali vari ci ha ripetutamente reclamizzato, il calcio è fra le tante espressioni della cultura contemporanea quella che meglio specchia le innervature politiche e sociali, e per assonanza quindi popolari e autentiche di un paese, allora tutti possono partecipare a questo gioco di ruolo, compresa me che per tutta la vita ho cercato di scappare dal calcio e dal mondo traslucido e artificiale che nell’Italia in cui sono cresciuta gli girava intorno.

Calcio e politica

Sorgono spontanee quindi alcune domande da porre agli “europei della Brexit”: l’ordine sparso con cui (da sempre) si sono presentate le squadre britanniche anticipa quello che sta per avvenire? La “partizione” del Regno Unito? Che tenuto insieme negli ultimi decenni con lo sputo ora sta per esplodere con il nazionalismo scozzese da una parte, e dall’altra con la “guerra delle salsicce” fra Downing street e l’Ue legata agli accordi per la Brexit in Nord Irlanda? Una dissociazione fra stato, nazione e patria che il calcio, per la verità assieme ad altri sport fondamentali come, per esempio, il rugby o il cricket o l’hurling, ha preservato contro l’egemonia, alcuni direbbero il “colonialismo” culturale dell’Inghilterra? Presagio di nuove divisioni anche in Europa? Del tipo che in futuro potremmo assistere a partite come Catalogna-Corsica o Due Sicilie-Palatinato? Oppure, dopo aver vinto il “campionato dei vaccini”, sarà questa la volta buona che l’Inghilterra, che al gioco del pallone non vince una cippa dai tempi in cui i Beatles erano ancora una boy band, finalmente porterà oltremanica la coppa come profezia per un fulgido avvenire?

Calcio e politica si frequentano assiduamente e da molto tempo, come qualsiasi italiano ben sa. La situazione non è di certo diversa in Gran Bretagna e la pretesa dell’autonomia del primo rispetto alla seconda si scontra non solo con l’uso “elettorale” che tutti i leader e i primi ministri, seppur con sfumature diverse fra di loro, hanno fatto della popolarità del football, ma anche col prestigio, quanto presunto o effettivo qui non importa, di cui le società calcistiche si ammantano grazie alle frequentazioni con il potere. Gli eredi al trono vanno alla finale di Wimbledon, i politici in ascesa vanno allo stadio. Basta andare a vedere chi siede nelle “vip boxes” dell’Emirate Stadium dove gioca l’Arsenal, oppure leggere The Night Manager (Il direttore di notte) di John le Carré.

Il primo ministro che più di tutti viene associato al calcio è il laburista Harold Wilson; in parte perché è l’unico che ha potuto festeggiare una vittoria (inglese) nel 1966, in parte perché ha imputato anche alla sconfitta contro la Germania (ovest) ai Mondiali del 1970 la sua di sconfitta, quella elettorale contro il conservatore Ted Heath e in parte perché l’uso del linguaggio calcistico assieme alla pipa e alla pinta di birra erano gli elementi del suo appello al popolo. Tutti i laburisti hanno flirtato col calcio, compreso quell’ultra-socialista di Tony Benn. Il football, o meglio il suo uso politico, è forse l’unica cosa che accomuna Tony Blair e Jeremy Corbyn: entrambi si sono fatti ritrarre in campo mentre tentano un palleggio, ma almeno Blair non indossava camicia, cintura di pelle e Clarcks. Diversa, ovvio, la situazione se si guarda al partito conservatore normalmente associato agli sport dei college di Oxford e Cambridge. E soprattutto se si considera che il più longevo primo ministro conservatore è stato Margaret Thatcher.

Il calcio è del popolo

Qui, infatti, si tocca un altro dei miti, ormai forse un cliché: il calcio come people’s game e il suo tradimento, dove la nozione di popolo coincide con classe lavoratrice. Nato e codificato, come molti degli sport contemporanei, nella società britannica ottocentesca il calcio si fondava sui valori “liberali” tradizionali del non professionismo; nella matrice e nelle contrapposizioni fra protestanti e cattolici di quell’età storica affondano ancora alcune delle differenze fra le tifoserie come, ad esempio, Liverpool ed Everton, o Celtic e Rangers in Scozia. Sebbene la battaglia per la professionalizzazione dei giocatori sia stata una lotta “dal basso” parallela all’allargamento del suffragio e alla sedimentazione delle istituzioni democratiche, il calcio di oggi è chiaramente un segmento dell’economia capitalista globalizzata, con tanto di sommerso e riciclaggio di denaro sporco. Da lì sostenere che prima dell’era “neoliberale” e della globalizzazione i club in quanto vera espressione della comunità che li circondava rappresentassero, grazie alla simbiosi coi tifosi, una sorta di “democrazia partecipativa” oggi corrotta e “gentrificata” a partire dall’esclusione degli hooligans, veritiera espressione delle classi popolari, credo però sia una narrazione un po’ consolatoria. L’idealizzazione di un passato “puro” da ripristinare, una battaglia dal sapore socialista da combattere al grido di “tifosi di tutto il mondo unitevi” insomma, forse ci racconta più dei problemi e delle difficoltà del discorso democratico di oggi che della complessità del passato. Come ha scoperto, del resto, il partito laburista che alle ultime elezioni aveva inserito un progetto di “democratizzazione” delle società calcistiche legato alla rivitalizzazione del rapporto territorio-squadra.

Il microcosmo

Certo il calcio, come tutte le espressioni culturali di massa introietta, replica e rappresenta le tensioni nella società, razzismo compreso come purtroppo i fischi di qualche giorno fa all’inginocchiamento dei calciatori a sostegno della campagna Black Lives Matter mostrano. Il sessismo nei suoi aspetti più beceri, per fortuna, pare superato; almeno nel Regno Unito. Un microcosmo della storia di un paese, direbbe lo storico inglese Eric Hobsbawm, dove tutto si riflette all’interno del perimetro del campo, come ha scritto il semiologo Jacques Deridda. Dove ognuno può scegliersi il calcio che meglio lo rappresenta, da Febbre a 90 (Fever Pitch) di Mick Hornby a Il mio amico Eric (Looking for Eric) di Ken Loach, dal romanzo A Natural di Ross Raisin al film scozzese Gregory’s Girl, considerato uno dei film britannici più belli del Ventesimo secolo.

Non vi è dubbio che il calcio sia stato il prototipo dello sport del lavoratore (maschio e bianco) inglese, gallese e scozzese nel secondo dopoguerra e che sia andato ibridandosi grazie alle trasformazioni economiche e sociali, dunque politiche, in atto “mettendo in scena” le contraddizioni del paese. Si è “terziarizzato” ed “europeizzato” come l’economia britannica, e ha sfruttato al massimo la libertà di movimento di merci e lavoratori dando impiego a molti calciatori e allenatori europei, esattamente come ha fatto la City di Londra. Ma suvvia, usarlo come sostituto della rappresentanza politica allora, alla luce dell’esito del referendum del 2016, costringerebbe Inghilterra e Galles a ritirarsi anche dagli Europei. La Scozia potrebbe rimanere. E questo sarebbe troppo, forse, anche per Boris Johnson. Chissà, magari questa sarà la prossima battaglia di Nigel Farage se vincerà la Francia o la Germania.

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