«Niente fiori per la sposa in carcere»: i due matrimoni di Tiziana a Rebibbia

A Tiziana è capitato di assistere a due matrimoni in carcere, a Rebibbia. A dire il vero, solo al primo ha assistito come invitata, nel secondo la sposa era lei. Quando si sposarono suo fratello e la compagna, entrambi detenuti, Tiziana era ancora libera. I familiari entrarono dall’ingresso di via Majetti e furono condotti attraverso una serie di corridoi fino a una stanza destinata alla perquisizione. Lì vennero privati di tutto: orologi, collane, qualsiasi oggetto d’oro, tranne le fedi. Tiziana aveva portato un piccolo mazzo di fiori per la sposa: le venne tolto anche quello. Ricorda di quella giornata il grigiore delle pareti e dei corridoi, nonostante fuori una giornata limpida di primavera scaldasse l’aria. Dopo un’attesa difficile da quantificare, lei e i familiari furono accompagnati in un’altra stanza, simile a un ufficio: una grande scrivania, forse degli schedari, il delegato del sindaco e un segretario seduti dietro, pronti a celebrare la cerimonia. Poi arrivarono gli sposi. Tiziana ricorda i lunghi capelli rossi di lei, tinti di henné, come andava di moda allora. Si salutarono senza abbracci. La cerimonia fu rapida: le frasi di rito, la lettura, le firme sul registro. Dopo pochi minuti li portarono via per l’ora di colloquio prevista e i familiari furono ricondotti nella stanza delle perquisizioni, dove vennero loro restituiti gli oggetti. Tutto fu freddo e veloce, con una sensazione di vuoto e rammarico per averli lasciati lì dentro che durò giorni: La rabbia impotente di chi è sotto il controllo di altri e non può neppure abbracciare le persone che ama. [Missing Caption][Missing Credit] Il secondo matrimonio Il secondo matrimonio, invece, fu il suo. Accadde nel dicembre del 1991, sempre a Rebibbia. All’epoca Tiziana era detenuta da qualche anno, e anche il suo compagno, Franco, si trovava in carcere. Si era da poco concluso il processo che li vedeva coimputati: l’unica occasione, seppure innaturale, per vedersi e parlare. Decisero così di sposarsi. Per la cerimonia, Tiziana venne trasferita dal carcere femminile a quello maschile. La fecero salire su un furgoncino della polizia penitenziaria per uscire da via Bartolo Longo e rientrare da via Raffaele Majetti, perché i due reparti, pur vicini, non comunicavano tra loro. Con lei c’erano tre agenti: all’epoca vigeva la regola del “tre a uno”, tre di loro per una detenuta. Come avrebbe potuto immaginare, da ragazzina, che al suo matrimonio sarebbe con la scorta, in un’auto della polizia penitenziaria? La zona degli uffici dell’amministrazione era, come per il matrimonio del fratello, grigia, poco illuminata, impregnata di odore di fumo stantio. Tiziana attese in una stanzetta finché non fu tutto pronto; Franco arrivò dai corridoi sotterranei che collegano i reparti, simili a quelli di un grande ospedale: l’edilizia pubblica è spesso accomunata da un’aria polverosa di trascuratezza. Quando li fecero entrare, i loro familiari erano già presenti: per lei la madre, il padre e il fratello come testimone; per lui la madre e il fratello, anche lui testimone. Il delegato del sindaco e il segretario sedevano dietro la scrivania. Tiziana e Franco si abbracciarono – non era più in vigore l’articolo 90 che lo vietava – e così iniziò la cerimonia. Poche parole di rito, la firma dei registri, un ultimo abbraccio. Pochi minuti ed era già finito. Non ci fu nulla di festoso: niente pastarelle, niente fiori, niente fotografie. Era inverno. Tiziana indossava un paio di pantaloni di velluto e un largo maglione che le piaceva molto. Alla fine del colloquio lo regalò al marito e lui fece lo stesso: fu l’unico dono possibile. Tiziana lo conservò per anni. Le fedi erano state portate dai familiari: la sua l’avrebbe persa, Franco invece la conserva ancora. Dopo la cerimonia li spostarono in un’altra stanza, molto grande, forse una sala riunioni, con un enorme tavolo al centro. Si sedettero vicini, agli angoli del lato corto, e parlarono a bassa voce per l’ora consentita, con una guardia sulla soglia della porta. Scaduto il tempo, vennero riportati ciascuno nella propria sezione. [Missing Caption][Missing Credit] Vita in comune Dopo il matrimonio Tiziana rimase a Rebibbia per un mese, perché le era stato concesso un periodo di colloqui più lungo: veniva dal carcere di Latina, e in questi casi era la sposa a restare temporaneamente dove si trovava il coniuge. Sposandosi, infatti, si aveva diritto a un mese di colloqui ogni semestre. Ogni anno bisognava presentare domanda al ministero, tramite la matricola del carcere: la richiesta veniva poi approvata o respinta, e di solito a spostarsi erano le donne. Così, per due mesi all’anno, Tiziana veniva trasferita nel carcere dove si trovava Franco; finito quel periodo, tornava nella sua sezione a Latina. Sposarsi in carcere, per loro, non era un gesto romantico. Si amavano da prima, certo. Ma formalizzare il loro legame era piuttosto un modo per potersi vedere, per strappare qualche ora di vita comune alle regole della detenzione. Ma ogni volta, al termine dei colloqui, il vuoto li invadeva. Questo accadeva tra il 1982 e il 1991, a loro che erano detenuti come prigionieri politici. Tiziana, ancora oggi, si chiede se qualcosa, fuori e dentro, sia davvero cambiato. Questo testo è stato pubblicato sull’ultimo numero del magazine di Hyperlocal, la piattaforma editoriale che da quattro anni racconta le comunità, i luoghi simbolici e le scene, culturali e artistiche, dei quartieri di diverse città del mondo. In occasione del Giubileo dei detenuti – previsto per domenica 14 dicembre 2025 – Hyperlocal ha dedicato un nuovo progetto a Rebibbia. Il magazine è eccezionalmente affisso nel Nuovo Complesso del carcere. I 120 poster che lo compongono saranno inoltre esposti, fino al 18 dicembre, su 20 tabelle metalliche e removibili, nello slargo antistante la fermata della Metro B Rebibbia, una mostra a cielo aperto che costruisce un ponte tra i detenuti e la popolazione del quartiere. L’11 dicembre è in programma un talk che esplora come il teatro, il video e la fotografia possano diventare un’esperienza trasformativa, aiutando i detenuti a sperimentare nuovi ruoli sociali e a ricostruire la propria identità. Intervengono: il regista Alain Parroni, Fabio Cavalli, fondatore del “Teatro Libero di Rebibbia”, e Francesca Tricarico, regista e ideatrice del progetto di teatro in carcere “Le Donne del Muro Alto”. Le foto di questo articolo sono state scattate da Angelo Turetta nella sezione femminile di Rebibbia, negli anni ‘90.