Oggi è filtrato il documento ufficiale delle autorità colombiane che rivela gli esiti dell’autopsia fatta sul corpo di Mario Paciolla, trovato morto il 15 luglio nel suo appartamento in Colombia, a san Vicente del Caguan. Aveva 33 anni, una esperienza solida sul campo in Colombia e pure come osservatore di quel che succedeva nel paese (scriveva sotto pseudonimo per la rivista di geopolitica Limes). Stava partecipando come UN volunteer (“volontario”, da intendersi in questo caso come un profilo a tutti gli effetti specializzato), nella missione delle Nazioni Unite nata dopo la firma dell’accordo di pace tra il governo del paese e le Forze armate rivoluzionarie.

A tre mesi dalla sua morte - accreditata all’inizio come un suicidio dalle autorità colombiane, mentre la famiglia dice che il ragazzo era terrorizzato per qualcosa avvenuto all’interno della missione e pensa quindi all’omicidio - esistono ben tre filoni di investigazione: una autopsia e una indagine colombiana, una autopsia e una indagine italiana, con tanto di rogatoria internazionale; e infine una indagine interna alle Nazioni Unite. Eppure dell’esito di queste autopsie e di queste indagini al momento si erano avute solo ricostruzioni: il medico che ha concluso l’autopsia in Italia non si esprime, né si esprime al momento la procura. 

L’autopsia colombiana

Il settimanale colombiano Semana rivela ora gli esiti dell’autopsia colombiana. “Se i lavori investigativi scarteranno altre circostanze legate ai modi in cui la morte è avvenuta, questa è compatibile con l’ipotesi del suicidio” si legge nel documento. Che parla di un lenzuolo legato al collo, di ferite sui polsi, fino a 3,5 centimetri di lunghezza e quattro millimetri di profondità. “Autoinflitti” ipotizza il report, che parla pure di due coltelli e una pozza di sangue, dei vestiti anch’essi macchiati di sangue. L’autopsia conclude che “la morte possa essere causata da encefalopatia ischemica dovuta alla compressione dei vasi per il collo appeso”. Insomma, morto soffocato. 

Le contraddizioni

Ma il caso è tutt’altro che chiuso, e anche qualora fosse accertato il suicidio, bisogna verificare che non sia stato indotto. Gli elementi riferiti dalle persone vicine a Paciolla - in primis dalla madre, Anna Motta, che ha riportato le ultime conversazioni col ragazzo - indicano che pochi giorni prima della morte, il 10 luglio, qualcosa lo avesse gravemente turbato. Chi conosce Paciolla ne riferisce il forte senso etico che permeava anche il suo modo di svolgere la professione. Quel 10 luglio aveva discusso con la sua missione, coi suoi capi, credeva di essersi «ficcato in un guaio», riferisce la madre; voleva tornare nella sua Napoli perché riteneva che la Colombia per lui non fosse più sicura. E infatti doveva tornare, Mario: la mattina del 15 luglio in cui è stato ritrovato morto, avrebbe dovuto iniziare il viaggio interno alla Colombia per poi prendere il volo che lo avrebbe riportato, il 20 luglio, nella sua città natale. Ci è tornato il suo cadavere, dieci giorni dopo. 

Le tracce

Le autorità colombiane dopo il ritrovamento riportano che la morte è avvenuta alle due di notte del 15 luglio, all’inizio circola l’ipotesi del suicidio, che Mario Paciolla si sia impiccato. Ma già dalle prime ore vengono fuori le incongruenze, «la morte è avvenuta in circostanze poco chiare» dice il colonnello Oscar Lamprea. E riferisce che il corpo di Mario porta lacerazioni ai polsi. Eppure tra gli oggetti rinvenuti nell’appartamento non risultava finora alcuna lama che combaciasse con quel tipo di ferite. A metà mattinata del giorno del ritrovamento, l’Onu telefona ai genitori del ragazzo e laconicamente informa che si è suicidato, chiede se vogliono indietro il corpo; serve l’autorizzazione della famiglia anche per eseguire l’autopsia, che in Colombia avviene il 17 luglio, solo che ai genitori viene riferito, per rassicurarla, che all’esame autoptico prenderà parte Jaime Hernan Pedraza, un medico legale autorizzato; e invece Pedraza è il capo del dipartimento medico della missione Onu. 

Le prove ripulite

Nei giorni seguenti, il 29 luglio, la Farnesina dirà a questo giornale che «all’esame ha partecipato un medico di fiducia della missione Onu». La scena della morte viene di fatto alterata nelle ore successive al ritrovamento del corpo. Il dipartimento di sicurezza dell’Onu, in totale libertà perché non risultano essere presenti poliziotti colombiani (il che costerà poi a quei poliziotti un’indagine della autorità colombiane), il 16 luglio prende dall’appartamento alcuni oggetti e il 17 luglio consegna le chiavi al proprietario di casa perché possa affittarlo ad altri. L’appartamento viene pulito e poi restituito lindo, candeggiato. Del dipartimento di sicurezza dell’Onu fa parte Christian Thompson, responsabile della sicurezza della missione di San Vicente del Caguan per la quale lavorava l’italiano. Ed è lui, per quel che risulta finora, uno degli ultimi contatti telefonici prima della morte, alle ore 22. Thompson in passato aveva lavorato nell’esercito colombiano e poi come contractor per multinazionali e, prima che per la missione, pure per Usaid, la missione statunitense nell’area. La fidanzata di Mario riferisce che il ragazzo, di Thompson, «non si fidava più». 

I silenzi

Sui motivi di tensione tra Paciolla e la sua missione sono state fatte alcune ricostruzioni; ci si ferma alle ricostruzioni perché la missione non si esprime a riguardo, e anzi nei primi giorni ha ripetutamente segnalato via mail ai suoi dipendenti l’inopportunità di parlare sul caso. Solo dopo qualche settimana il segretario generale Onu ha sollevato dall’immunità i membri della missione perché parlassero quantomeno con le autorità giudiziarie. Bisogna allora tornare a quel 10 luglio in cui Mario discute coi suoi capi, e al fatto che avesse chiesto - pur senza mai ottenerlo - il trasferimento a un’altra missione. Paciolla lavorava in smart working come da disposizioni per Covid-19, dunque con ogni probabilità i motivi dei suoi turbamenti si trovano depositati nei suoi dispositivi informatici, sui quali pure le informazioni sono incomplete, non è chiaro che siano stati ritrovati tutti. La giornalista colombiana Claudia Julieta Duque riferisce del suo mouse ritrovato con tracce di sangue nella sede della missione. 

I leak

Sempre Duque fa riferimento a un episodio dell’autunno 2019 che portò alle dimissioni del ministro della Difesa colombiano, Guillermo Botero: in un bombardamento finirono uccisi diciotto ragazzini che erano stati reclutati dai dissidenti delle Farc. La giornalista ricostruisce che Paciolla aveva lavorato al report Onu su quell’episodio, aveva anche lamentato che la sua missione nel report ufficiale avesse liquidato il caso in poche righe. Poi il rapporto, ricostruisce Duque, sarebbe stato filtrato da alcuni esponenti della missione all’opposizione parlamentare, che lo avrebbe usato per silurare Botero. Certo è che lo scorso inverno Mario si persuase di essere stato vittima di un attacco informatico. Ma questo non spiega cosa sia successo esattamente il 10 luglio. 

La pace e il patto

In Colombia il processo di pace è fortemente a rischio, le stesse Nazioni Unite riportano un aumento di uccisioni a discapito di sindacalisti, attivisti e altri esponenti della società civile. Il crescendo di violenza nel paese governato da Ivan Duque Marquez ha già portato di recente a dissapori con le Nazioni Unite, il che non giustifica ma aiuta a capire perché così poche informazioni arrivino sul caso, un caso che tocca direttamente l’Onu. «La morte di un osservatore Onu non può non avere forti implicazioni politiche, anche solo per la percezione del rischio di tutti gli altri osservatori», come ha detto il giornalista Stephan Kroener, che segue il caso tra Colombia e Germania. Il corrispondente Ansa a Buenos Aires, Maurizio Salvi, ha denunciato esplicitamente “un patto del silenzio”: «Il corpo è stato trasferito in Italia con consegna di segretezza, i governi non fanno accedere i media alla documentazione, silenzio di Onu, procura, ambasciata, quindi dei media». Perché?

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