Al centro sociale Leoncavallo di Milano il prossimo avviso di sfratto, l’ennesimo, sarà a giugno. Allo Zapata di Genova il primo invito ad andarsene è invece arrivato a gennaio, ma è suonato così convincente che gli occupanti hanno cambiato strategia per assicurarsi un futuro: creare un’associazione. A Roma invece, dopo undici anni di occupazione dello Spin Time in un palazzo pubblico abbandonato, il comune ha annunciato: «Vogliamo acquistare quell’immobile».

Quanto si tratta di spazi sociali occupati, c’è infatti una sola regola: procedere in ordine sparso. In base alle sensibilità politiche, alle storie dei singoli luoghi o alla forza che hanno in quel momento. E così da nord a sud le amministrazioni scelgono strade diverse: sfratti, trattative, accordi, tolleranza, indifferenza, persuasione, scontro.

Mezzo secolo di Leoncavallo, nessuna soluzione

LaPresse

È evidente la difficoltà di gestire un fenomeno sempre in bilico tra legalità, equilibri politici e armonia sociale da mantenere. Emblematico è proprio il caso del Leoncavallo di Milano, uno dei primi centri sociali in Italia con ormai 48 anni di storia. Dagli anni Novanta ha sede nel quartiere Greco in un capannone industriale di proprietà della famiglia Cabassi, che da anni vuole riprendere possesso della struttura. «Abbiamo perso il conto degli avvisi di sfratto, ben più di 100», racconta Daniele Farina, esponente del Leoncavallo, ex consigliere comunale a Milano con Rifondazione ed ex deputato. «Eppure i tempi sono più che maturi per un accordo».

Per questo spazio frequentato da decine di associazioni i tentativi di trovare una soluzione sono sempre falliti. Ad andarci più vicino fu il sindaco Giuliano Pisapia nel 2015, che propose uno scambio di aree tra il comune e Cabassi: ma il tentativo naufragò tra le accuse incrociate della sinistra. Oggi con la giunta Sala la situazione è di stallo: e anche se il Leoncavallo non ha più il ruolo centrale di un tempo (tra i 23 spazi sociali di Milano sono più attive realtà come Il cantiere, Lume, o Piano terra) la destra ruggisce davanti a ogni possibile regolarizzazione. Basta vedere le accuse volate contro Pierfrancesco Majorino del Pd, per una cena nel Leoncavallo durante la campagna elettorale per la presidenza della regione Lombardia. Il deputato Riccardo De Corato (FdI), che rivendica di aver fatto naufragare ogni intesa quando era in consiglio comunale a Milano, non molla un centimetro. «Bisogna mandare via chi occupa, i centri sociali sono covo di delinquenti e anarchici. Anche se non è più pericoloso come un tempo, il Leoncavallo fa business, accoglie immigrati clandestini e sinistra radicale».

È la stessa posizione che tiene FdI a Roma, dove è stato cavalcato il decreto antirave per chiedere lo sgombero di uno spazio ben diverso: lo Spin Time, palazzo pubblico abbandonato occupato da 450 persone con 98 minori. Nella città con più spazi autogestiti in Italia, una trentina, le occupazioni a fini abitativo sono molto più diffuse che altrove. Ma nessuno spazio come lo Spin Time viene preso così spesso come esempio di integrazione e welfare autogestito. «Qui vivono persone di 26 nazionalità e il tasso di dispersione scolastico è quasi zero», spiega l’attivista Andrea Alzetta, tra i protagonisti romani del movimento per il diritto alla casa. «Qui hanno sede decine di realtà, dalle reti di studenti ai laboratori di sartoria della parrocchia. Allo Spin Time abbiamo costruito una comunità. Il concetto non è solo avere un tetto sulla testa, ma anche dei diritti».

I “beni comuni” di De Magistris

Il concetto di comunità e diritti ritorna anche nei ragionamenti dell’ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris, che dal 2011 al 2021 ha avviato politiche innovative per gli spazi sociali. «La novità è stata considerare i beni immobili occupati come beni comuni, di cui avere una fruizione collettiva, popolare, democratica», spiega De Magistris, oggi a capo di Unione Popolare. «L’approccio dei funzionari comunali inizialmente è stato negativo: ritenevano che senza una prestazione monetaria in cambio, l’uso degli spazi fosse illegittimo. Ma si è riconosciuto il valore di avere all’interno di un immobile altrimenti abbandonato un luogo culturale, un ambulatorio popolare, una scuola di italiano per stranieri».

E così in una quindicina di spazi a Napoli, come l’Ex Asilo Filangeri e lo Scugnizzo liberato, la gestione è stata affidata ai collettivi che già li occupavano. «Non si è trattato di tolleranza dell’amministrazione, ma di farsi protagonisti di una definizione giuridica per dare valore a queste esperienze». Le iniziali obiezioni della Corte dei conti non hanno avuto seguito: ora il comune di Napoli sta cercando di quantificare l’impatto sociale dell’uso di questi beni. Con l’amministrazione giallorossa di Gaetano Manfredi si è però tornati a parlare di sgomberi. Nel mirino sono finiti i centri giovanili Sgarrupato ed Eta Beta, che secondo il comune non rispettano le regole per cui si sono aggiudicati la sede: ma grazie al sostegno degli spazi sociali in città, i due centri sono ancora al loro posto. Secondo l’ex assessora alla cultura Eleonora de Majo, legata al centro sociale Insurgencia, «in una città con altre priorità, andare con le ruspe non conviene a nessuno».

Sulla dannosità degli sgomberi non ha dubbi l’architetto e filosofo Agostino Petrillo, che insegna sociologia nel Politecnico di Milano. Anzi: per lui sgomberare «è sempre una mossa azzardata, che rischia di trasformarsi in un boomerang». Fermo restando le grandi differenze di città in città, «i centri sociali sono spesso dei gangli vitali nelle periferie deindustrializzate» spiega. «L’autogestione non è solo conflitto ma anche arte, musica, cultura. Che senso ha smantellare chi fornisce cose gratis?». Davanti all’obiezione che un’amministrazione non può tollerare illegalità, il professore Petrillo non si scompone. «Tra le posizioni estreme di chi vuole sgomberare tutto, e di chi non vuole avere rapporti con le istituzioni, ci sono tante sfumature. In Germania i centri sociali sono regolarizzati, senza essere snaturati».

L’esperimento di Bologna, il fallimento di Genova

Tra le città all’avanguardia sotto questo punto di vista c’è Bologna. Nel solco della convenzione che regola il Tpo-Teatro Polivalente Occupato, dopo lo sgombero di Atlantide, Làbas, Crash e Xm24 da parte del sindaco Virginio Merola (Pd), alcuni centri sono rinati partecipando a un bando per usare gli spazi. È il caso di Crash e soprattutto di Làbas. Oggi Làbas è “un municipio sociale”, ha sede (legale) in un ex convento ed esprime un consigliere comunale, Detjon Begaj, capogruppo di Coalizione Civica. Ma per un centro sociale ha senso scendere a patti per garantirsi un futuro? «Dipende», risponde prudente Begaj. «Dagli spazi sociali un’amministrazione può trarre stimoli, con politiche di partecipazione e il coinvolgimento del terzo settore. È però legittimo che alcuni scelgano il dialogo, e che altri lo rifiutino».

L’occupazione come mezzo (e non come fine) è la posizione che ha unito i Centri Sociali delle Marche, che radunano nove dei ben 12 spazi autogestiti di una regione con appena un milione e mezzo di abitanti. La strada del dialogo era partita anche a Genova, tra l’ex sindaca di centrosinistra Marta Vincenzi e don Gallo come garante degli spazi occupati. Era il 2011, lo scopo era creare un’associazione per dare ai centri sociali un futuro. Poi don Gallo è morto, il vento politico cambiato. Da allora tre centri sociali genovesi sono stati sgomberati, a partire dal laboratorio Buridda che sopravvive in un palazzo abbandonato dell’università. Lo Zapata è sotto sfratto e si trova davanti a un bivio: scendere a patti con il sindaco o rivendicare l’occupazione con il rischio di scomparire. Sta vincendo la prima ipotesi, ma la diffidenza è tanta. Il timore è che un comune di Genova politicamente ostile punti in realtà a eliminare uno spazio mal sopportato: anche a costo di cancellare trent’anni di musica e cultura nel ponente industriale della città.

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