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«Vuoi che la mia musa canti, o per lo meno descriva in un discorso appropriato, le delizie del piccante ceviche peruviano?». Curiosamente questi versi di Juan de Arona, celebre letterato peruviano dell’ottocento, ci pervengono solamente sotto forma di citazione all’interno di un altro scritto dell’autore, al secolo Pedro Paz Soldàn y Unanue: il Dizionario dei Peruvianismi, forse la sua opera più celebre. Il lemma a cui la poesia serviva da esempio era “espiche”, una spagnolizzazione del termine inglese “speech”, discorso. Qualcuno sostiene addirittura che il termine in realtà non esistesse nemmeno, ma che sia stato inventato all’occasione perché non c’era nessun’altra parola che potesse far rima con ceviche.

Un’eventualità semplicemente irricevibile per il poeta e, più in generale, per il popolo peruviano tutto, che doveva già amare il piatto a tal punto da dedicargli un incipit, seppur in maniera velatamente ironica, così omerico.

Ma cos’era, nel 1866, questo ceviche? «Piccoli pezzetti di pesce o di gamberetti, inzuppati nel succo di arance amare, con molto peperoncino e sale». Lo descrive così Manuel A. Fuentes, personaggio istrionico nato pochi mesi prima dell’indipendenza peruviana del 1821, aggiungendo che bisogna poi «attendere qualche ora perché il pesce possa impregnarsi di peperoncino e cuocere, per così dire, per l’azione bruciante di quest’ultimo e dell’acidità dell’arancia».

Il sopravvento del lime

Se oggi, in qualsiasi taberna del quartiere di San Isidro a Lima, una ricetta simile venisse servita in tavola spacciata per ceviche, di sicuro il cuoco passerebbe un brutto quarto d’ora.

Nell’ultimo secolo e mezzo il ceviche è cambiato parecchio, guadagnando almeno la cipolla rossa come ingrediente imprescindibile, mentre il lime ha preso il sopravvento sull’arancia amara e il tempo di contatto tra l’agrume e il pesce è diventato brevissimo, pochi minuti, meglio se pochi secondi.

Parlando della carbonara a Roma direbbero “l’ovo nun s’ha da coce, mejo n’infezione de na frittata” e per il ceviche è lo stesso, la freschezza primordiale del pesce crudo deve essere protagonista. Il cambiamento accadde «in qualche momento del ventesimo secolo», secondo lo chef-star peruviano Gastòn Acurio, uno dei massimi esperti della materia. Ma perché? Probabilmente, come spesso accade in cucina, c’entra un incontro.

I primi 790 giapponesi sbarcarono al porto del Callao di Lima, Perù, il 3 aprile 1899. Erano salpati alla fine di febbraio da Yokohama a bordo dell’imponente Sakura Maru, una nave a vapore diventata poi il simbolo stesso dell’asse migratorio nippo-peruviano, fortemente promosso dalle politiche del restaurato Impero Meiji. Nel giro di poco più di vent’anni furono circa 18mila i giapponesi di bassa estrazione sociale a raggiungere il Perù con contratti di lavoro nelle piantagioni.

Il movimento gastronomico

L’adattamento fu lungo e difficile, secondo alcuni antropologi mai del tutto terminato, ma lo stesso non può dirsi per quanto riguarda la cucina di queste comunità, che col passare degli anni passò dall’essere un mero mescolamento di ingredienti peruviani e giapponesi a un vero e proprio movimento gastronomico: la cucina Nikkei.

Probabilmente i primi ristoratori “nikkei” trovavano che la lunga macerazione mal si accordasse con la raffinata acidità che nel sushi si abbina al pesce crudo. Forse fu la generazione di Minoru Kunigami, che aprì una piccola cevicheria a Lima negli anni Sessanta, a cominciare a tagliare il tempo. Di certo lo fece la successiva.

La storia di Nobuyuki

Foto AP

È un poco più che un ragazzo quello che lavora dietro al banco di un sushi Bar del quartiere Shinjuku di Tokyo. Si chiama Nobuyuki Matsuhisa e quando un cliente abituale, peruviano di origini giapponesi, lo invita ad aprire un ristorante a Lima lui non ci pensa due volte.

Deve cominciare a produrre un sushi all’altezza di quello che modellava in patria, ma un po’ per bisogno e un po’ per curiosità comincia a introdurre ingredienti locali nelle ricette più tradizionali, insomma, propone moderna cucina Nikkei.

È il 1973. Il ristorante però traballa, fatica ad affermarsi, e chiude dopo solo tre anni. Argentina, poi Alaska, ma il suo nuovo locale viene distrutto dalle fiamme dopo due sole settimane dall’apertura, e infine Los Angeles, dove dopo anni sotto padrone inaugura il suo nuovo ristorante Matsuhisa.

Robert de Niro è un cliente affezionato, è entusiasta di quel cibo che mescola lo stile di cucina giapponese con l’opulenza americana e gli ingredienti più esotici del nuovo continente, e dopo aver lavorato assieme sul set di Casinò di Martin Scorsese (dove Nobuyuki interpreta un senatore nipponico) decide di aprire con lo chef una filiale newyorkese del suo ristorante preferito.

Ma Matsuhisa è un nome troppo lungo, meglio il soprannome: Nobu. Ora è una celebre catena di ristoranti di lusso, e i suoi menù sono stati e sono tutt’ora tra i più emulati al mondo, creando di fatto un nuovo codice gastronomico a se stante.

Il successo della cucina di Nobuyuki ha coinciso temporalmente con l’affermazione del ceviche come next big thing della gastronomia mondiale, e forse non è un caso. «Un piccante ceviche di astice avvolto in foglie di lattuga, con scaglie di daikon e rape», faceva parte del suo primissimo menù.

«Combina il grande rigore della preparazione giapponese del pesce e le piccanti, aromatiche salse della cucina creola». Con queste parole, nel 1983, il poeta peruviano Rodolfo Hinostroza descriveva quella che lui per primo aveva chiamato “cucina nikkei”. Dubito che, se la musa dell’incipit avesse mai davvero cercato le parole giuste per cantare “le delizie del piccante ceviche peruviano”, ne avrebbe trovate di migliori.

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