La sera del 13 marzo del 2013, quando il cardinale Jean Louis Tauran, affacciato dalla finestra della loggia centrale della basilica vaticana, ha annunciato il nome del nuovo papa, la folla di fedeli, cittadini, religiosi, credenti e turisti di ogni parte del mondo che affollava via della Conciliazione e piazza san Pietro, ebbe un momento di smarrimento. Raccontano le cronache che una cosa simile acadde quando, nel 1978, venne pronunciato il nome di Karol Wojtyla, ancora poco noto arcivescovo di Cracovia. Ma la chiesa è spesso specchio dei tempi, anzi li anticipa.

Così, se il papa polacco interpretò alla perfezione la stagione conclusiva della guerra fredda, il pontefice argentino è l’uomo della globalizzazione e della sua crisi. Francesco è stato il vescovo di Roma deciso ad abbattere i cento muri che dividono il nord e il sud del mondo, gli scartati e gli integrati, i milioni di profughi e i popoli risparmiati dalle guerre.

In questo senso Bergoglio è il papa della globalizzazione reale, quella in cui non conta più solo il pianeta unificato dalla circolazione virtuale di titoli azionari e di spaventose somme di denaro; per Francesco esiste “prima” il mondo degli esseri umani con la loro infinita varietà, e per questo meritevoli tutti di attenzione e misericordia, delle nazioni povere, dei migranti, degli esclusi e dei perseguitati, e anche della biosfera, della via intesa nelle sue mutevoli forme che determinano la ricchezza del Creato, non da possedere ma da lasciare in eredità alle future generazioni. Una visione, questa, che ha aperto un conflitto profondo fra li papa e diverse correnti e personalità presenti nelle società come nella chiesa

Il sinodo sulla famiglia

In questo conflitto, il primo momento di scontro aperto si è verificato durante il doppio sinodo sulla famiglia (il primo del 2014 e il secondo nel 2105): è nell’arco di quell’appuntamento che l’ala conservatrice più dura ha coltivato l’obiettivo di mandare a monte il progetto riformista del papa.

D’altro canto, non per caso, uno dei padri sinodali di quell’assise, l’arcivescovo Tomasz Peta, di Astana (Kazakistan), appartenente alla corrente tradizionalista, aveva affermato che il “fumo di Satana” era entrato in Vaticano con il sinodo e «precisamente attraverso la proposta di ammettere alla sacra comunione chi è divorziato e vive in una nuova unione civile; l’affermazione che la convivenza è un’unione che può avere in se stessa alcuni valori; l’apertura all’omosessualità come qualcosa dato per normale».

Intorno al sinodo si moltiplicavano interventi critici verso le proposte del papa come quello del professor Roberto De Mattei, capo della Fondazione Lepanto, che scriveva alla fine di ottobre del 2015 a commento del testo conclusivo dell’assemblea sinodale: «Non vi è né buona intenzione, né circostanza attenuante che possono trasformare un atto cattivo in buono. La morale cattolica non ammette eccezioni: o è assoluta e universale, oppure non è una legge morale».

«Tutti sono stati sconfitti», aggiungeva, «a cominciare dalla morale cattolica che esce profondamente umiliata dal Sinodo sulla famiglia conclusosi il 24 ottobre». Il comunicato del Superiore dei lefebvriani (La Fraternità sacerdotale san Pio X), monsignor Bernard Fellay, a proposito del testo conclusivo dell’assise affermava: «Vi si possono leggere sicuramente dei richiami dottrinali sul matrimonio e la famiglia cattolica, ma si notano anche delle spiacevoli ambiguità e omissioni, e soprattutto delle brecce aperte nella disciplina nel nome di una misericordia pastorale relativista».

Ma è da parte dei settori più conservatori della conferenza episcopale degli Stati Uniti, che sono arrivati i maggiori strali contro il papa e il suo tentativo di dare seguito alle intuizioni del Concilio Vaticano II. E certamente una parte importante di questa opposizione al papa argentino è venuta dagli ambienti della ricca lobby nordamericana pro life, con le sue ramificazioni internazionali, che identifica appunto il cattolicesimo con la scelta anti-aborto.

In generale, è serpeggiata in questi anni in vari settori cattolici ultra-tradizionalisti, la voglia di denunciare il papa come eretico, di affermare la sua assenza di cattolicità, in definitiva di urlare che sul Soglio di Pietro sedeva un impostore o quanto meno un traditore della vera fede.

I dubia 

In proposito va ricordato come nella Curia romana, le posizioni più oltranziste contro il pontefice sono state rappresentate in primo luogo da un cardinale americano, Raymond Leo Burke, fautore della messa preconciliare, lefebvriano di fatto, espressione di una chiesa fatta di merletti e lunghi mantelli rossi cardinalizi, clericale fino all’ossessione, avvitata su un normativismo esasperato, in perenne conflitto con ogni idea cristiana di giustizia, conservatrice per vocazione e per scelta.

A lui in un primo tempo si associò un altro porporato, italiano stavolta e ormai scomparso, Carlo Caffarra, ex arcivescovo di Bologna. Entrambi, Caffarra e Burke, firmarono insieme ad altri due porporati anziani, i tedeschi Walter Brandmüller, ex capo del pontificio comitato di scienze storiche, e Joachim Meisner, ex arcivescovo di Colonia, una lettera aperta rivolta al papa nella quale esplicitavano una serie di dubia circa le conclusioni tratte da Francesco nell’esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetititia, dedicata appunto ai temi della famiglia, delle relazioni sessuali e all’amore.

Dubia che, secondo l’americano Burke, in caso non avessero trovato risposta da parte del papa, avrebbero potuto portare i cardinali ribelli a correggere il pontefice. Se i quattro cardinali dissidenti, tutti sul viale del tramonto, non avevano più molto da dire alla chiesa avendo da tempo consumato le loro carriere, altri nemici del papa si muovevano intorno e dentro i sacri palazzi d’Oltretevere.

Müller e Viganò

È un fatto, per esempio, che personalità come il cardinale tedesco Gerhard Ludwig Müller, ex prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, la pensassero in modo praticamente identico ai cardinali dei dubia, pur esponendosi in modo meno plateale.

Nell’estate del 2023, poi, nuovi dubia venivano espressi da 5 cardinali: due erano sempre Burke e Brandmüller, ai quali si aggiungevano il cardinale guineano Robert Sarah, ex prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, Joseph Zen Ze Kiun, ex vescovo di Hong Kong, e il messicano Juan Sandoval Iniguez.

Questa volta i dubia toccavano questioni sostanziali: le benedizioni delle unioni omosessuali, il ministero sacerdotale per le donne, l’immutabilità della dottrina, il perdono e la sinodalità quale forma costitutiva della chiesa.

Un caso a parte, è poi rappresentato dall’ex nunzio apostolico negli Usa, Carlo Maria Viganò, figura al contempo bizzarra e inquietante. Sostenitore di Donald Trump fin dal principio (lo stesso presidente Usa è stato fino all’ultimo un nemico di papa Francesco), prima cercò di incastrare Bergoglio affermando che era a conoscenza degli abusi sessuali del cardinale Theodore McCarrik e non aveva fatto nulla per fermarlo (accuse successivamente smontate dalla Santa Sede), poi rovesciò sul pontefice ogni sorta di addebito, sostenendo che fosse un falso papa, un usurpatore, un servo di Satana e fra i responsabili del “grande reset”, cioè di un complotto delle élites mondiali per asservire oscuramente il mondo ai propri interessi cancellando la fede cristiana. Risultato: McCarrick è stato dimesso dallo stato clericale nel 2019, e Viganò  è finito per essere accusato di scisma e scomunicato nel 2024.

Un altro caso particolare, è quello del cardinale Angelo Becciu, partito come collaboratore del papa e poi finito nell’occhio del ciclone, sotto processo e condannato dal tribunale vaticano, per la nota vicenda dell’affare immobiliare londinese di Sloane Avenue con fondi della Segreteria di Stato.

La reazione 

ANSA

Come ha reagito papa Francesco a questa sequela ininterrotta di accuse, insinuazioni, contestazioni, problemi? Non è stato facile per il pontefice reggere l’impatto di una simile quantità di critiche miste ad odio personale, e Bergoglio ha rischiato spesso di fare la fine triste del «generale nel suo labirinto»: non sapendo più bene di chi fidarsi, infatti, si è affidato spesso all’istinto o anche all’umore cupo del momento nella nomina dei suoi collaboratori o nelle scelte da compiere.

È riuscito a spezzare meglio l’assedio, invece, tutte le volte che ha optato per uscire dall’angolo in cui volevano rinchiuderlo avversari e nemici, proseguendo sulla strada dell’apertura all’altro e del dialogo aperto col mondo.

© Riproduzione riservata